Il vicepresidente di Federsanità ANCI FVG, Antonio Poggiana, direttore generale di ASUGIAzienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina è intervenuto l’1 ottobre, al webinar promosso da Happy Ageing sull’immunizzazione dell’adulto e dell’anziano con un’ampia riflessione su “Il nuovo ruolo per Aziende sanitarie e Comuni” e rilanciare alleanze e collaborazioni con tutti i soggetti della Rete dei soggetti per Salute e Welfare con e per il territorio. Di seguito proponiamo l’abstract del suo intervento.
Sembra scontato, ma ora che riguardiamo a cosa ci ha lasciato la pandemia e come i ruoli sono cambiati, lo facciamo con la psicologia del reduce, del sopravvissuto e del veterano di guerra. Perché questa è stata la terza guerra mondiale combattuta con i soldati della sanità e del sociale. Non solo medici, infermieri, sanitari, ma anche amministrativi, tecnici, ingegneri, informatici sul fronte e poi sindaci, amministratori locali, protezione civile, forze dell’ordine, insegnanti, volontari, cittadini. All’inizio della pandemia, le aziende sanitarie hanno dovuto riconsiderare tutti i luoghi di erogazione delle cure con la improvvisa consapevolezza che gli ospedali e le case di riposo erano diventati i luoghi meno sicuri e siti più frequenti di focolaio. Ci eravamo abituati a definire noi i luoghi di cura, a far venire le persone negli ospedali e a trasportarle lì nel più breve tempo possibile con il 118. Ci eravamo abituati ad aspettare che il paziente o il cittadino chiedesse, facesse richiesta, compilasse una domanda, e poi noi in base alla richiesta ad erogare la prestazione. Abbiamo dovuto invertire la rotta: per il contact tracing, abbiamo dovuto cercare i contatti, chiedere alle persone di fare i test, convincerli a isolarsi e a stare in quarantena, insomma correre dietro ai pazienti. E, quando necessario, collocarli in ambienti segregati e isolati. Non l’avevamo mai più fatto, da 50 anni almeno. Ci eravamo dimenticati di quando avevamo creato ambienti isolati e dedicati a soggetti contagiosi, o incurabili, non ci ricordiamo più dei sanatori, dei lebbrosari, dei manicomi? Degli ospedali pneumologici, della tisiologia? La casa si è tramutata nel luogo più sicuro di cura per il paziente positivo non grave. Luogo di cura, ma anche di isolamento e quarantena, quasi un lazzaretto domestico. E la vaccinazione è il modo per uscire da questa guerra, ma, di nuovo, anche con le vaccinazioni, ora stiamo correndo dietro alle persone, cercando di ”trovare” quel 20% di esitanti per vaccinarli, anche se impauriti, o prevenuti. Abbiamo visto allora i sindaci in prima linea nella sorveglianza sanitaria sui soggetti positivi in quarantena a casa con un rinnovato ruolo di tutela della salute pubblica nel proprio territorio. Così ci siamo ritrovati sindaci e personale che, consapevoli della positività dei propri cittadini, hanno agito con nuovi compiti di assistenza e di polizia locale, solitamente impegnata più a controlli stradali, o di ordine pubblico, che a controlli da ufficiali sanitari. E abbiamo avuto sindaci e amministratori che, casa per casa, hanno invitato i cittadini ad aderire alla campagna vaccinale, hanno facilitato l’accesso, hanno favorito il trasporto ai siti vaccinali a chi aveva difficoltà. Nel conflitto tra diritti, è riemersa la prevalenza del diritto a tutelare la salute pubblica rispetto alla tutela del diritto del singolo alla tutela della sua privacy. Con l’epidemia di AIDS avevamo visto tutelare prima il diritto alla riservatezza e poi il diritto della comunità ad essere informata della contagiosità del paziente. Con il COVID 19 siamo ritornati ai tempi delle grandi pestilenze della storia, alla quarantena inventata dai veneziani, che hanno anche popolato Muggia, al Lazzaretto, inizialmente isola della laguna dove isolare (isola=isolamento=isolare) persone e merci potenzialmente contagiose provenienti dall’ altro mondo. L’azienda sanitaria ha scoperto che dobbiamo saper entrare nei luoghi di vita delle persone, nelle case, nelle scuole, nelle fabbriche, nei luoghi dello sport, nelle comunità e saper portare sorveglianza, screening e vaccinazioni e cure in tutti i luoghi di vita delle persone. Non più un luogo speciale per le cure (=ospedale-ambulatorio), ma le cure nei luoghi della vita quotidiana, con una propulsione mai vista sinora alle tecnologie e alla digitalizzazione per favorire la telesorveglianza, la telecura, la telemedicina, ma anche il telelavoro e la formazione e la didattica a distanza. Abbiamo visto sindaci e comuni in prima linea nell’offerta di palestre, palazzetti sportivi come siti vaccinali o per l’esecuzione di tamponi. E questo è un segnale nuovo che i luoghi della vita quotidiana, dello svago, del tempo libero, dell’istruzione possono essere convertiti, o usati, come luoghi per la salute, il bene comune ed il benessere della popolazione. La medicina non sarà più la stessa, ma anche il management e la gestione di un’azienda, o di un comune non saranno più le stesse. La casa è diventata non solo luogo di cura, ma anche il luogo del lavoro, si è scoperto che il tempo-lavoro non è più l’unica unità di misura dell’efficienza del lavoratore. Non solo medici e infermieri in servizio ininterrotto per giorni e settimane, ma anche amministrativi, tecnici, funzionari sempre connessi da casa e disponibili a risolvere problemi inauditi. “Market search” nel cuore della notte per trovare dispositivi di protezione e tecnologie sanitarie in capo al mondo (altro che capitolato di gara e regolamento degli appalti). E poi la ricerca di personale da oltre confine, da tutto il mondo, senza concorso, senza titolo riconosciuto in Europa, perchè la battaglia si combatte con le armi e le munizioni più recenti, ma senza il capitale umano i cannoni tacciono. Concorsi e selezioni erano i comuni metodi di reclutamento del personale che le risorse umane erano abituati ad usare. Tanti candidati da scremare e sfrondare perché solo pochi potevano accedere al lavoro sicuro in azienda. Come la leva una volta selezionava solo i soldati abili, scelti, scartando gli inabili ed i diversi. Eravamo abituati a ricevere domande di assunzione, richieste di inserimento in graduatorie, costruire barriere e arginare la piena di candidati, respingendo le ondate di disoccupati come un’invasione.
Si è rovesciato tutto: manifestazioni di interesse, chiamate nominali, call sempre aperte, stabilizzazioni di precari, incarichi professionali affidati in poche ore, carenze di tutte le figure professionali, ricerca ininterrotta di professionisti anche a costo di rubarli a chi ne avrebbe più bisogno. Così Comuni, o Consorzi di Comuni, che gestivano residenze e servizi per le persone anziane e disabili si sono visti sottrarre dalle aziende sanitarie le risorse più preziose nel momento del maggior bisogno, magari durante lo scoppio di un focolaio. Anche gli assistenti sociali ora ci rubiamo tra aziende e comuni. Ma non eravamo alleati? Il nostro sistema non si chiama integrato, socio-sanitario? Tradimento? Fine di un matrimonio? È cambiato il rapporto tra aziende e comuni anche alla luce di queste dinamiche. Le aziende hanno scoperto che tanti professionisti sanitari laureati non credono all’evidenza scientifica, non si fidano della letteratura biomedica su cui hanno fondato i loro studi e la loro professione, credono e divulgano teorie di pseudoscienziati, astrologi, ciarlatani, e con il loro comportamento violano uno dei primi doveri etici del professionista sanitario, che è quello di non nuocere e poi di fornire conoscenza e informazione affidabile a chi non ha accesso al mondo della comunicazione medico-scientifica. Per finire: la lunga scia di dolore che la pandemia ha lasciato nell’anima delle persone, dei sanitari, dei reduci e dei sopravvissuti. Improvvisamente siamo diventati familiari con i PTSD, Post- Traumatic-Stress Disorders. Le conseguenze sulla salute mentale che la pandemia ci ha lasciato non sono paragonabili alle ferite, o alle mutilazioni di guerra. E non sono solo un affare delle aziende sanitarie, ma un affare di tutti. Quelle ferite di guerra quelle mutilazioni si vedevano, queste sono nascoste e negate, consumano e bruciano senza essere viste. E così abbiamo una nuova epidemia di personale che si ammala, si mette in aspettativa, si licenzia, si auto lesiona e, solo in pochi casi, chiede e trova ascolto, attenzione, cura e supporto. Esplode la consapevolezza che non abbiamo sportelli di ascolto per lo stress dei lavoratori, non abbiamo abbastanza psicologi a loro dedicati. I nostri uffici del personale sono ferratissimi nella gestione dei contratti e degli accordi sindacali, ma sono a mani nude e impreparati nell’affrontare questa silenziosa minaccia della nostra forza lavoro. E che mina la nostra stessa forza personale come dirigenti e direttori di aziende sanitarie, o amministratori di comuni, grandi e piccoli.
L’equilibrio tra vita e lavoro, passato che ci angoscia e presente che esige, famiglia e colleghi, casa e ufficio, azienda e comuni, salute e malattia sarà la sfida di questo futuro, che dovremo affrontare sì con il nuovo che avanza, con le nuove tecnologie, le seconde linee di giovani colleghi startuppers, l’Artificial intelligence, l’internet of things. Ma anche con la consapevolezza che la forza per uscire da questa crisi sta prima di tutto dentro le persone, nel loro animo, nella loro capacità di chiedere aiuto, guarire e aiutare a guarire le ferite che questa guerra ci ha lasciato. Sicuramente il patto tra Azienda sanitaria e Comuni va riscritto, i Piani di zona vanno messi in relazione con i Piani sanitari, col PNRR, alla luce di questi nuovi scenari per farsi nuove dichiarazioni di reciproco rispetto, fedeltà, sinergia e collaborazione. Dobbiamo essere in grado di ricostruire le nostre alleanze e di sentirci parte della stessa squadra, di fare di nuovo squadra e di saperla condurre con leadership e fiducia. E questo viene chiesto ai direttori generali, che sono nominati, ma anche ai sindaci che sono eletti dai cittadini. Solo cosi ne usciremo insieme.