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HomeN2/018Livelli essenziali, standard ospedalieri e riduzione dei posti letto: note a margine della sentenza della Corte n. 231 del 2017, rileggendo la n. 125 del 2015.

Livelli essenziali, standard ospedalieri e riduzione dei posti letto: note a margine della sentenza della Corte n. 231 del 2017, rileggendo la n. 125 del 2015.

Premessa

La sentenza n. 231 del 2017 conclude un giudizio in via principale, promosso dalle Province autonome di Trento e di Bolzano e dalla Regione Veneto, avente ad oggetto alcune norme della legge di stabilità 2016 in materia sanitaria (legge 28 dicembre 2015, n. 208), relative alla programmazione della riduzione dei posti letto ospedalieri (art. 1, comma 541, lett. a), alla determinazione del fabbisogno di personale (comma 541, lett. b) e d), alle procedure concorsuali per nuove assunzioni e al ricorso in via transitoria a forme di lavoro flessibile (commi 542, 543, 544), all’acquisto di prestazioni ospedaliere di alta specialità (comma 574), nonché al monitoraggio dei provvedimenti adottati dalle Regioni in attuazione di tali previsioni (comma 541, lett. c).
Pur recando prescrizioni di vario contenuto, tali disposizioni statali sono tutte inquadrate dalla Corte in un medesimo «contesto normativo» (punto 6, c.d.), determinato dall’adeguamento della normativa italiana sull’orario di lavoro del personale sanitario alla disciplina eurounitaria e caratterizzato dall’intenzione del legislatore di far fronte alle conseguenze di tale conformazione al diritto dell’U.E. senza pregiudicare la continuità nell’erogazione dei servizi. Tra le prescrizioni contestate, una (comma 541, lett. a) è invero riconducibile anche a un contesto normativo distinto (e temporalmente antecedente), rappresentato dall’operazione di razionalizzazione delle reti ospedaliere avviata dal decreto sulla c.d. spending review del 2012 , il quale ha imposto una riduzione dei posti letto accreditati e a carico dei Servizi sanitari regionali nell’ambito dell’adozione, ivi prevista, di standard nazionali relativi all’assistenza ospedaliera.
Questa pluralità dei contesti normativi riflette la coesistenza (e la reciproca influenza) di diverse rationes alla base delle norme legislative direttamente e indirettamente rilevanti nel giudizio, aumentando le intersezioni e le sovrapposizioni tra gli ambiti di competenza che la Corte è chiamata a definire. In tal senso, l’usuale complessità dei rapporti tra le potestà normative di Stato e Regioni nel settore sanitario, strutturalmente connotato dall’intreccio di diversi titoli competenziali , viene accresciuta, nel caso in commento, sia dal concorso di ulteriori materie occasionalmente rilevanti sia dalla particolare condizione delle autonomie speciali ricorrenti, le quali non solo e non tanto possono far valere in tale settore un doppio radicamento delle proprie competenze (nello statuto e, in virtù della clausola di maggior favore di cui all’art. 10, l. cost. 3/2001, nell’art. 117 Cost.), ma soprattutto finanziano integralmente con risorse proprie i rispettivi servizi sanitari.
Le questioni decise dalla Corte, come induce a ritenere anche il dispositivo singolarmente articolato, meriterebbero tutte attenzione. Tuttavia, le note che seguono prenderanno in considerazione soltanto le motivazioni della sentenza che riguardano la riduzione dei posti letto ospedalieri e sfociano nel primo accoglimento parziale. Questo profilo sollecita un interesse particolare, poiché la conferma (non del tutto lineare) del giudicato di cui alla sent. n. 125 del 2015, anche alla luce di un non trascurabile passaggio della sent. n. 192 del 2017, pone alcuni interrogativi sia sull’inquadramento nel riparto costituzionale delle competenze di un importante intervento statale in materia, qual è l’adozione degli standard nazionali relativi all’assistenza ospedaliera (decreto ministeriale 2 aprile 2015, n. 70), sia sulla concezione dei livelli essenziali delle prestazioni che emerge da questa recente sequenza giurisprudenziale.

2. La necessità di un chiarimento circa il fondamento costituzionale del d.m. 70/2015

2.1. La conferma, da parte della sentenza n. 231 del 2017, del giudicato costituzionale di cui alla sentenza n. 125 del 2015

La questione relativa all’art. 1, comma 541, lett. a), in quanto sollevata per violazione del giudicato costituzionale, è la prima ad essere trattata nel merito dalla Corte, subito dopo il rigetto dell’eccezione di inammissibilità per carenza d’interesse ad agire avanzata dalla difesa erariale.
La disposizione censurata prevede che le Regioni e le Province autonome «ove non abbiano ancora adempiuto a quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, del regolamento di cui al decreto del Ministro della salute 2 aprile 2015, n. 70, adottano il provvedimento generale di programmazione di riduzione della dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del Servizio sanitario regionale nonché i relativi provvedimenti attuativi». La prescrizione è elencata insieme ad altre, che sono indicate nello stesso comma 541 e che vengono finalizzate espressamente ad «assicurare la continuità nell’erogazione dei servizi sanitari, nel rispetto delle disposizioni dell’Unione europea in materia di articolazione dell’orario di lavoro».
Ad avviso delle ricorrenti, il legislatore avrebbe così sostanzialmente riprodotto l’obbligo di riduzione dei posti letto ospedalieri di cui all’art. 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012, già dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 125 del 2015 nella parte in cui esso era applicabile alle Province autonome.
Come anticipato, la disposizione da ultimo citata, facente parte del decreto-legge del luglio 2012 con il quale fu promossa una vasta operazione di revisione della spesa pubblica che aveva interessato anche il comparto sanitario, richiede alle Regioni ordinarie e speciali la «riduzione dello standard dei posti letto ospedalieri […] ad un livello non superiore a 3,7 posti letto per mille abitanti». Tale riduzione deve essere attuata, oltre che alla stregua di ulteriori criteri quantitativi e qualitativi ivi stabiliti , altresì in base a nuovi standard nazionali relativi all’assistenza ospedaliera, la cui individuazione è demandata ad un regolamento da adottarsi secondo la procedura di “specificazione” dei Lea di cui all’art. 1, comma 169, l. 311/2004 , poi effettivamente emanato con il d.m. 70/2015. Quest’ultimo ha definito, a partire dai criteri direttamente individuati dal legislatore (che riproduce con qualche margine di flessibilità ), un complesso organico e dettagliato di parametri in base ai quali le Regioni sono chiamate nel corso di un triennio a revisionare le proprie reti ospedaliere, secondo un disegno di politica sanitaria che viene analiticamente illustrato, al pari dei predetti parametri, all’interno dell’allegato tecnico e che, anche in considerazione della procedura codecisionale dalla quale scaturisce l’atto, indirizza lungo linee generali condivise il processo di riordino da calare nella realtà dei singoli SSR.
La sentenza n. 125 del 2015, deliberata dalla Corte due giorni dopo la pubblicazione in G.U. del predetto decreto ministeriale , aveva stabilito che l’art. 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012 non trovasse fondamento in alcun titolo di potestà legislativa statale idoneo a legittimare una simile prescrizione alle Province autonome, che erano anche allora ricorse in Corte.
Poiché il comma 541, lett. a), richiama le Regioni e le Province autonome, che ancora non abbiano provveduto alla riprogrammazione della propria rete ospedaliera in base agli standard del d.m. 70/2015, a darvi seguito, tale norma viene ritenuta dalle ricorrenti una implicita “re-imposizione” di un obbligo di riduzione dei posti letto analogo a quello già colpito dal precedente del 2015. La Corte riconosce che il legislatore ha utilizzato una diversa tecnica normativa (basata «sul rinvio a una disposizione regolamentare contenente specificazioni prima disposte direttamente dal testo legislativo» ), ma la considera meramente una tecnica per reintrodurre un precetto vincolante già ritenuto incapace di esplicare legittimamente effetti nei confronti delle Province autonome. Di qui, la violazione del giudicato costituzionale che va a travolgere il comma 541, lett. a).
Tale soluzione ha senz’altro il pregio della chiarezza e della certezza, giacché in tal modo la Corte “semplicemente” ribadisce la non assoggettabilità delle (sole) Province autonome all’obbligo di riduzione dei posti letto ospedalieri in base al criterio delle 3,7 unità per mille abitanti e agli altri connessi stabiliti dall’art. 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012. Tuttavia la conferma del giudicato richiama l’attenzione su di un precedente dalle motivazioni tutt’altro che lineari, sulle quali occorre soffermarsi.

2.2. Sulla illegittimità parziale, nei confronti delle sole Province autonome, dell’art. 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012

Nella sentenza del 2015, dopo aver individuato nella tutela della salute e nel coordinamento della finanza pubblica le materie cui riportare l’oggetto dell’art. 15, comma 13, lett. c), ovvero la programmazione della dotazione di posti letto , la Corte concludeva pianamente che la disposizione impugnata, non articolandosi in «enunciati generali riconducibili alla categoria dei principi», introducesse una disciplina di dettaglio interdetta alla potestà legislativa statale. Tale valutazione del giudice costituzionale valeva indistintamente, stando alla lettera della sentenza, per entrambi i titoli materiali, ma quel che più rileva è che essa portava ad escludere il legittimo radicamento della norma statale
nella potestà concorrente in base a un argomento astrattamente valido nei confronti tanto delle ricorrenti quanto di tutte le altre Regioni, ordinarie e speciali.
L’unico argomento applicabile alle sole Province autonome, ovvero quello facente leva sull’integrale autofinanziamento con risorse proprie dei rispettivi servizi sanitari, veniva ritenuto espressamente aggiungersi a quello principale incentrato sulla struttura nomologica della norma contestata; e ciò quando questo stesso motivo – sul quale, peraltro, la difesa trentina aveva fondato “in via principale” la propria domanda, secondo una scelta di priorità logico-argomentativa inversa a quella adottata dalla Corte – sarebbe bastato a sostenere l’esenzione delle ricorrenti da un intervento statale di coordinamento finanziario, non essendo in ballo l’ottemperanza a vincoli eurounitari.
Analoga portata generale, non circoscrivibile alle sole attribuzioni delle Province autonome, presentano i motivi con i quali la sentenza n. 125 del 2015 nega la riconducibilità della disposizione censurata alla potestà esclusiva in materia di livelli essenziali delle prestazioni.
Al proposito, il giudice costituzionale afferma che i Lea rappresentano degli «standard minimi» che lo Stato fissa al fine di «evitare che, in parti del territorio nazionale, gli utenti debbano assoggettarsi ad un regime di assistenza sanitaria inferiore, per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile», ferma comunque la «possibilità delle singole Regioni, nell’ambito della loro competenza concorrente in materia, di migliorare i suddetti
livelli di prestazioni». La Corte opera così, in via generale, una lettura dell’istituto dei livelli essenziali che “rima” perfettamente con le norme attuative dello statuto trentinoalto atesino in materia di igiene e sanità, alla cui stregua le Province, nell’esercizio delle «potestà legislative ed amministrative attinenti al funzionamento ed alla gestione delle istituzioni ed enti sanitari», sono tenute a «garantire l’erogazione di prestazioni di assistenza igienico-sanitaria ed ospedaliera non inferiore agli standards minimi previsti dalle normative nazionale e comunitaria».
Poiché allora, afferma la Corte, l’art. 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012, non tende «a garantire un minimum intangibile della prestazione, ma ad imporre un tetto massimo alla stessa» , tale disposizione non può essere riportata alla competenza esclusiva dello Stato sui livelli essenziali.
La valenza generale di queste motivazioni stride con la decisione di dichiarare l’illegittimità della norma impugnata nella sola parte in cui essa si applica alle Province autonome, quando l’unico argomento che può ritenersi avere una portata soggettiva circoscritta alle ricorrenti (l’integrale finanziamento da parte delle medesime dei propri servizi sanitari) viene utilizzato dal giudice costituzionale a fortiori per escludere ogni spazio di legittimo intervento statale e la carenza di legittimità della predetta norma è fatta derivare dalla lesione di parametri applicabili anche alle altre Regioni ordinarie e speciali.
Vi sarebbe, invero, un’unica ipotesi interpretativa alla cui stregua la riconducibilità alla competenza esclusiva sui livelli potrebbe negarsi con riferimento alle Province autonome e invece ammettersi nei confronti delle altre Regioni. Sarebbe quella di ritenere che la predetta norma di attuazione dello Statuto trentino-alto atesino conduca non a un rafforzamento della clausola sui livelli ma ad una applicazione dei Lea e ad una concezione della loro essenzialità differenziate, tale per cui i livelli essenziali, all’interno delle Province speciali, andrebbero sempre considerati soglie minime oltre le quali tali enti autonomi potrebbero liberamente andare in quanto (e quindi nei soli casi in cui) lo Stato non concorre al finanziamento dei relativi servizi. L’ipotesi non trova adeguato riscontro letterale nelle stesse parole della Corte, la quale, nel delineare contenuti e limiti della competenza esclusiva ex art. 117, comma 2, lett. m), non ne parla affatto con esclusivo riferimento alla situazione delle Province, ma svolge considerazioni di ordine generale, procedendo per citazioni di precedenti che mostrano analoga portata. Eppure, se la Corte avesse diversamente formulato il proprio giudizio, non interpellando la predetta norma di attuazione dello Statuto quasi a corredo, ma argomentando su di essa una concezione e una operatività dei livelli riservata alle Province autonome, non si sarebbe trattato di un’ipotesi implausibile, benché contrastabile per diverse ragioni. Su questi aspetti, che possiedono un rilievo sistemico non indifferente, si tornerà oltre (§ 3).

2.3. Sugli effetti dell’illegittimità dell’art. 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012 nei confronti del d.m. 70/2015, alla luce della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 1, comma 541, lett. a), l. 208/2015

Nel rilevare la violazione del giudicato nei confronti delle Province ricorrenti, la sentenza n. 231 del 2017 ha confermato la portata soggettiva, limitata alle ricorrenti, della declaratoria d’illegittimità del 2015, ma sembra anche averne precisato il contenuto, fornendo una chiave di lettura del proprio precedente in grado di circoscriverne gli effetti, potenzialmente pregiudizievoli, nei confronti del d.m. 70/2015.
La Corte, nella sentenza del 2017, fa espressamente proprie le motivazioni in base alle quali aveva in precedenza dichiarato incostituzionale l’art. 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012, richiamandole, però, con qualche imprecisione: a) per quanto riguarda la non riconducibilità alla tutela della salute, viene esattamente ricordato che la norma del 2012 era stata dichiarata illegittima in quanto ritenuta integrare una disciplina di dettaglio; b)
per quanto riguarda la non ascrivibilità alla potestà di cui alla lett. m) dell’art. 117, comma 2, la Corte si limita ad enunciarla e non riprende alcuna delle (pur estese) considerazioni che essa aveva svolto nella precedente pronuncia; c) per quanto riguarda la non invocabilità, a difesa dello Stato, della potestà concorrente in materia di coordinamento finanziario, la Corte omette di riferire la motivazione principale allora dichiarata, ovvero quello stesso carattere dettagliato della norma che ne ostava la configurabilità come principio fondamentale in materia di tutela della salute, richiamando soltanto la motivazione a suo tempo esposta ad abundantiam – che qui invece appare come l’unica rilevante – facente leva sulla circostanza che la spesa sanitaria delle Province autonome sia ad integrale carico della finanza regionale e non venga alimentata da risorse statali.
Si tratta di scostamenti che, pur assai lievi, fanno intravedere un non completo allineamento tra le due decisioni. In particolare, se l’ambiguità generata sub c) conferma la problematicità di quel profilo della sentenza n. 125 del 2015, il silenzio conservato sub b) consente alla Corte di non esporsi apertamente alla contraddizione, che esiste, come si evidenzierà nel prosieguo, tra l’illegittimità del d.m. 70/2015 adombrata nella precedente
sentenza e la copertura costituzionale per esso riscontrata sia nella sentenza n. 231 sia nella di poco antecedente n. 192 del 2017.
Nella sentenza n. 125 del 2015, infatti, il vero convitato di pietra è proprio il “Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera” adottato con il d.m. 70/2015. In quell’occasione, il giudice costituzionale, nel sindacare la legittimità dell’art. 15, comma 3, lett. c), incentrava le proprie valutazioni sul contenuto precettivo corrispondente all’obbligo di riduzione dei posti letto, mentre tendeva sostanzialmente a non considerare che la riduzione “pretesa” dal legislatore statale è strettamente legata ai criteri in base ai quali essa va attuata e costituisce, al contempo, il fattore propulsivo e il traguardo della riorganizzazione
dell’assistenza ospedaliera perseguita nel suo complesso dal legislatore statale. In altri termini, nella sent. 125 del 2015 restano sullo sfondo proprio quegli standard che – come mostra la successiva esperienza dell’attuazione regionale di questa disposizione – costituiscono il veicolo fondamentale dell’operazione di politica sanitaria promossa dal legislatore statale, il quale ha espressamente scelto per guidarla uno strumento normativo (il regolamento ex art. 1, comma 169, l. 311/2004) chiaramente connesso alla competenza sui livelli essenziali e già oggetto di un intervento della Corte costituzionale (sent. n. 134/2006) volto a bilanciare, attraverso l’intesa in Conferenza, l’esigenza dello Stato di portare i livelli a un maggiore grado di specificazione con l’esigenza delle Regioni di poter codeterminare limiti potenzialmente dettagliati e stringenti alla propria autonomia. La declaratoria di illegittimità dell’art. 15, comma 13, lett. c), travolge formalmente l’intero primo periodo della disposizione , ivi compresa la norma che demanda al governo l’adozione degli standard relativi all’assistenza ospedaliera a norma dell’art. 1, comma 169, l. 311/2004 . Ciò fa sì che la sentenza n. 125, per un verso, investa anche la base legislativa del decreto e, per un altro, limiti i propri effetti alle Province autonome, in base però ad argomenti circa l’invasività dell’intervento statale suscettibili di essere estesi a beneficio della generalità delle Regioni. Di qui la “spada di Damocle” tesa dalla sentenza n. 125 sulla legittimità del d.m. 70/2015.
In questo quadro, la sentenza n. 231 del 2017 si muove con cautela, su di un sentiero che si mostra stretto e viene tracciato da due passaggi della pronuncia che meritano attenzione.
Nel giudicare il comma 541, lett. a), riproduttivo dell’obbligo di cui all’art. 15, comma 13, lett. c), la Corte considera questa volta espressamente i contenuti del d.m. 70/2015 e ritiene che tale riproduzione esista perché il comma 541, lett. a), facendo rinvio al «provvedimento generale di programmazione di riduzione della dotazione dei posti letto ospedalieri» di cui all’art. 1, comma 2, del regolamento, reintroduca “clandestinamente” sia l’obbligo di procedere a siffatta riduzione sia i relativi parametri numerici già contenuti nella norma dichiarata incostituzionale.
La Corte ritiene quindi che a riprodurre la norma già censurata e ad essere viziata dalla medesima illegittimità sia l’obbligo imposto alle Regioni di programmare in riduzione la propria dotazione di posti letto nel rispetto dei parametri numerici dettati dal legislatore statale. Poiché la norma viziata è ricavata dal comma 541, lett. a), attraverso il rinvio all’art. 1, comma 2, del d.m. 70/2015, il giudizio della Corte non può che investire anche tale norma regolamentare. Ciò significa altresì che sia solo questa la norma del decreto ministeriale pregiudicata dalla declaratoria d’illegittimità dell’art. 15, comma 13, lett. c)?
A far propendere per la risposta positiva e per il corrispondente ridimensionamento (ex post) degli effetti potenzialmente pregiudizievoli della decisone del 2015, depone un’altra asserzione della sentenza n. 231, che la Corte compie dopo aver già risolto la questione avente ad oggetto il comma 541, lett. a), nel momento in cui ricostruisce i parametri rilevanti per il giudizio delle altre disposizioni censurate dalle ricorrenti (punto 9.3.1, c.d.). Il giudice costituzionale, nell’illustrare che tali disposizioni si collocano al crocevia di molteplici competenze legislative, afferma che «in relazione ai “livelli essenziali delle prestazioni”, questa Corte ha già avuto modo di precisare che a tale competenza sono riconducibili quelle norme che, come quelle qui censurate, contengono un riferimento trasparente agli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera indicati nel decreto ministeriale 2 aprile 2015, n. 70, adottato a norma dell’art. 1, comma 169, della legge n. 311 del 2004, e “ne prescrivono il monitoraggio, intervenendo poi a imporre e disciplinare gli interventi necessari qualora, in determinate strutture, si registrassero scostamenti significativi” (sentenza n. 192 del 2017): la determinazione di tali standard deve, infatti, essere garantita, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto; e la relativa competenza, “avendo carattere trasversale, è idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore statale deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di determinate prestazioni senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle (sentenze n. 125 del 2015, n. 111 del 2014, n. 207, n. 203 e n. 164 del 2012)” (sentenza n. 192 del 2017)».
Tale passaggio della decisione, che si regge sulla valorizzazione di un altro precedente (la sent. n. 192 del 2017), è significativo almeno sotto due profili. Da un lato, la Corte riconosce che l’individuazione degli standard relativi all’assistenza ospedaliera compiuta attraverso il d.m 70/2015 corrisponde a un legittimo esercizio delle competenze assegnate allo Stato dall’art. 117, comma 2, lett. m), e comma 6, Cost.; e tale statuizione sembra
rendere inequivocabile la legittimità del decreto ministeriale, dal momento che considera il riferimento agli standard ivi indicati l’elemento sintomatico della riconducibilità alla predetta competenza delle norme censurate che ad essi si riferiscono. Dall’altro lato, viene ribadito un principio costante della giurisprudenza costituzionale sulla competenza in discorso, ovvero che essa è funzionale alla garanzia dell’eguale godimento delle prestazioni sul territorio nazionale e che, dunque, è idonea a produrre effetti in ogni parte di questo.
Quest’ultimo argomento ha a sua volta due implicazioni. La prima è ben visibile nella stessa sentenza, poiché l’argomento è tra quelli che paiono più condizionare la decisione della Corte in ordine alla legittimità costituzionaledelle altre prescrizioni della legge n. 208/2015 contestate dalle Province autonome. Tali disposizioni, infatti, insistono su di uno spazio normativo caratterizzato da un intreccio di competenze tanto fitto che la Corte ammette di non poterlo “sciogliere” dichiarando la prevalenza di una potestà sull’altra, bensì deve ricomporlo trovando un adeguato bilanciamento tra le esigenze unitarie espresse dalle norme statali censurate (tra le quali viene più volte evidenziata la garanzia dei livelli) e le prerogative speciali delle due ricorrenti (in particolare, la loro autonomia finanziaria); e la soluzione viene individuata nell’interpretazione conforme formulata dalla Corte, alla cui stregua le norme censurate sono legittime a patto di interpretarle come non vincolanti l’autonomia di spesa di enti che provvedono integralmente con entrate proprie al finanziamento dei rispettivi servizi sanitari.
La seconda implicazione attiene alla forza vincolante degli standard nei confronti delle Province autonome, sulla quale non si dovrebbe dubitare in ragione della necessaria applicazione su tutto il territorio nazionale dei livelli che essi specificano e alla luce della precisazione della declaratoria di illegittimità dell’articolo 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012, contenuta nella sentenza n. 125/2015, in base alla quale essa non investirebbe l’intera base legislativa del d.m. 70/2015, ma soltanto la norma che si sostanzia nell’obbligo di riduzione della dotazione di posti letto.

2.4. Quasi un paradosso? L’opinabile distinguibilità tra obbligo di riduzione della dotazione standard di posti letto e obbligo di applicazione degli standard ospedalieri.

Se quanto si è sostenuto è corretto, dalle decisioni qui all’attenzione risulterebbe la seguente situazione normativa: l’art. 15, comma 13, lett. c), primo periodo, d.l. 95/2012 è stato dichiarato illegittimo nella parte in cui obbliga le Province autonome a ridurre lo standard di dotazione di posti letto «ad un livello non superiore a 3,7 posti letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per mille abitanti per la riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie, adeguando coerentemente le dotazioni organiche dei presidi ospedalieri pubblici ed assumendo come riferimento un tasso di ospedalizzazione pari a 160 per mille abitanti di cui il 25 per cento riferito a ricoveri diurni»; conseguentemente, non è applicabile alle Province autonome l’obbligo di adottare il «provvedimento generale di programmazione di riduzione della dotazione dei posti letto» prescritto all’art. 1, comma 2, del decreto ministeriale, né i parametri numerici che tale disposizione mutua dal predetto art. 15; si applicano invece, con le garanzie della clausola di salvaguardia di cui all’art. 3 d.m. 70/2015, tutte le altre prescrizioni statali, che integrano gli standard relativi all’assistenza ospedaliera, contenute nel regolamento.
Complessivamente, quindi, si può ritenere che la sentenza n. 231 del 2017 abbia rimosso la “spada di Damocle” posta dalla sentenza n. 125 del 2015 sulla legittimità del d.m. 70/2015, ma nel farlo abbia, gioco forza, introdotto – o confermato, se si ragiona in termini di “interpretazione autentica” del precedente – una complicazione all’interno del quadro normativo, derivante dalla necessità di distinguere nel decreto ministeriale le norme espressive dell’obbligo di riduzione dei posti letto illegittime nei confronti delle
Province autonome – ma, alla luce degli argomenti spesi dalla Corte, potenzialmente nei confronti della generalità delle Regioni – dalle altre norme che compongono l’insieme degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi.
La distinzione, come si è visto, ha una sua razionalità formale, valida a riportare a coerenza le affermazioni svolte dalla Corte nella sequenza giurisprudenziale che si è esaminata e, perfino, potrebbe ritenersi in qualche misura assecondata dalla scelta compiuta nella redazione dell’articolo 1 del decreto ministeriale. Tuttavia, essa postula la possibilità, in concreto, di separare i parametri fondamentali sui quali s’incentra la revisione della rete ospedaliera (il limite dei 3,7 posti letto per mille abitanti e il tasso di ospedalizzazione del 160/1000) dai numerosi altri parametri, criteri, valori soglia e indicazioni sostanziali e procedurali nei quali si sostanziano gli standard relativi all’assistenza ospedaliera. Operazione, questa, sulla cui realizzabilità è lecito dubitare.
In altri termini, dopo l’intervento della sentenza n. 231 del 2017, le Province autonome sono formalmente esentate dall’obbligo di riduzione dei posti letto in base ai parametri stabiliti dal legislatore nel d.l. 95/2012 e tuttavia sono contestualmente obbligate all’applicazione degli altri standard relativi all’assistenza ospedaliera che risultano strettamente intrecciati con i primi ai sensi del d.m. 70/2015. Sicché, di fatto, l’obbligo di riduzione, uscito dalla “porta principale” di una disposizione normativa che espressamente lo prevedeva, finirebbe per rientrare a pieno titolo dalla “porta secondaria” di plurime disposizioni che convergono sull’adeguamento della rete ospedaliera a quello standard, senza bisogno di norme – come quella di cui al comma 541, lett. a), dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 231 del 2017 – che lo ribadiscano con formule di rinvio
più o meno trasparenti.
Questa situazione, dai tratti paradossali, sembra però destinata a stemperarsi notevolmente sul lato pratico.
In primo luogo, è così perché la clausola di salvaguardia di cui all’art. 3 del decreto ministeriale sembra consentire alle Province autonome proprio quei margini di flessibilità che possono attenuare l’obbligo di rispettare i parametri legali di dotazione dei posti letto.
In secondo luogo, va riconosciuto un altro elemento che la “tecnicità” della materia tende a nascondere, ovvero che, benché quei parametri legali imprimano alla riprogrammazione della rete ospedaliera una direzione complessivamente tendente alla riduzione dei posti letto, tale dinamica non è così rigida come può apparire. Merita, infatti, di essere segnalato che la regola per cui, all’interno dello standard dei 3,7 posti letto per mille abitanti, uno 0,7 vada destinato a posti letto per la riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie ha fatto sì che l’applicazione di tale standard, in alcune Regioni, determini la riduzione dei posti letto di questa categoria e, in altre, evidenzi invece un più elevato fabbisogno dei medesimi, con la conseguenza di renderne necessaria la creazione di nuovi, anche mediante la riconversione di quelli eccedenti il parametro del 3 per mille.
Questo aspetto del funzionamento degli standard ospedalieri aiuta a comprendere meglio anche la concreta operatività dei livelli essenziali dei quali i primi costituiscono pur sempre “specificazioni” e conferma le buone ragioni di chi, in dottrina, ha segnalato i rischi di concepire tali livelli come “minimi”, quando tra i caratteri qualificanti i livelli sanitari non vi è solo l’uniformità, ma anche l’appropriatezza.

3. Standard ospedalieri e concezione dei livelli essenziali di assistenza.

All’origine delle questioni interpretative delle quali ci siamo occupati finora sta principalmente la decisione della Corte, con la sentenza n. 125 del 2015, di escludere la riconducibilità dell’art. 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012 alla competenza statale sui livelli essenziali. Si tratta di una esclusione che, come si è già detto, viene formulata in termini generali e che trova in ciò un primo aspetto critico, giacché da essa viene poi tratta una declaratoria di illegittimità riservata alle sole Province autonome.
Prima che in questo aspetto concernente la coerenza tra il vizio rilevato e la portata soggettiva limitata della declaratoria, però, il passaggio della sentenza richiama anzitutto l’attenzione per l’interpretazione, ivi enunciata, dei Lea quali «standard minimi».
Il punto merita di essere considerato al di là del condizionamento che, sulla scelta di tale locuzione qualificatoria, può aver generato l’invocazione, tra i parametri della questione, anche dell’art. 2, comma 2, delle norme attuative dello statuto speciale, poiché la Corte fa riferimento a una definizione dei livelli essenziali, quali “minimi” per l’appunto, che si ritrova carsicamente nella sua giurisprudenza anche quando nessun rilievo abbia il rapporto tra Stato e autonomie speciali. Come noto, siffatta definizione corrisponde a una delle più dibattute opzioni interpretative della clausola di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., la quale viene respinta dalle voci che, con plurimi argomenti , hanno sostenuto l’irriducibilità dell’“essenziale” al “minimo” e i diversi effetti fuorvianti di una simile sovrapposizione semantica .
A questa discussione (che è certamente matura in dottrina, ma non cessa di evidenziare, anche secondo prospettazioni poco esplorare, la complessità delle questioni che convergono sulla clausola costituzionale ed è perciò lontana dall’essere esaurita) l’esame della sentenza n. 125 del 2015 può offrire, pur incidentalmente, un contributo interessante.
La Corte nega che l’obbligo di riduzione della dotazione di posti letto allo standard di 3,7 unità per mille abitanti sia “coperto” dalla potestà esclusiva statale non perché ritenga che tale valore, in astratto, non possa integrare un livello essenziale dell’assistenza
ospedaliera, ma perché la norma statale che lo prevede, per poter essere ricondotta a quella competenza, dovrebbe individuarlo come soglia minima e non come tetto massimo. Così ragionando, però, la Corte apre a una conseguenza che sembra minare la persuasività della tesi, poiché lascia intendere che la previsione di dotazioni più elevate di posti letto vada tout court nella direzione del miglioramento dei livelli di assistenza e debba quindi essere tutelata come spazio di esercizio dell’autonomia di cui gode ogni Regione nell’ambito della sua competenza concorrente in materia di tutela della salute.
Sicché è legittimo domandarsi se la Corte sarebbe giunta alle medesime conclusioni laddove avesse concepito quello stesso valore numerico come espressivo di una dotazione appropriata di posti letto, frutto di un bilanciamento tra adeguatezza ai bisogni sanitari della popolazione e risorse destinabili all’assistenza ospedaliera, alla luce di una politica di tutela della salute volta a drenare risorse umane, strutturali, strumentali e finanziarie dall’ospedale al territorio in ragione delle migliori risposte sanitarie che in tal modo il legislatore ha valutato potrebbero darsi ai cittadini.
La circostanza che il contesto normativo oggetto del giudizio della Corte sia più complesso di quanto essa abbia riconosciuto affidandosi alla visione dei livelli essenziali quali standard minimi, se corrobora le ragioni per cui deve ritenersi che la dicotomia minimo/massimo non sia adeguata a esprimere natura e funzioni dell’istituto, suggerisce altresì che gli standard di assistenza ospedaliera, incentrati sulla decisione di uniformare “in riduzione” la dotazione di posti letto dei SSR, entrano nel vivo di due questioni aperte nella riflessione sui Lep: la funzione e le condizioni di legittimità dei c.d. livelli aggiuntivi; il rapporto tra potestà esclusiva sui livelli essenziali e quella statale di principio sulla tutela della salute, sub specie “organizzazione sanitaria”.
I livelli aggiuntivi – che, in sanità trovano un puntuale riferimento normativo nell’art. 13, comma 1, d.lgs. 502/1992 –, per un verso, rappresentano uno strumento idoneo a garantire uno spazio di flessibilità del sistema, in grado, proprio grazie all’autonomia regionale in materia di tutela della salute, di “trainarlo” verso l’alto, elevandone la quantità e la qualità delle prestazioni (nonché la platea dei destinatari) , in coerenza con una visione promozionale-accrescitiva dei Lep; per altro verso si è generalmente ritenuto che l’unico vero limite che le Regioni incontrano nella previsione di livelli aggiuntivi risieda nella disponibilità di risorse, tanto che a quelle in piano di rientro viene preclusa l’adozione di ulteriori livelli aggiuntivi.
Occorre però notare altresì che i livelli aggiuntivi non solo devono essere sostenibili finanziariamente, ma trovano le proprie condizioni di legittimità nella stessa disciplina dei Lea, almeno sotto un duplice profilo: da un lato, non possono che allinearsi anch’essi ai requisiti di cui all’art. 1, comma 7, d.lgs. 502/1992 (rispondenza alle necessità assistenziali tutelate in base ai principi ispiratori del SSN; appropriatezza clinica e organizzativofinanziaria); dall’altro, trovando fondamento nella potestà concorrente in materia di tutela della salute, essi sono sottoposti ai limiti impliciti o espliciti derivanti dall’individuazione dei Lea, ivi compresi quelli attinenti ai profili organizzativi e strutturali (es. erogazione delle prestazioni in un determinato regime di assistenza o presso una struttura dotata di determinati requisiti). Un aspetto, quest’ultimo, che la sentenza n.125 del 2015 sembra del tutto trascurare.
Nel momento in cui l’individuazione dei Lea raggiunge il grado di dettaglio proprio degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi di cui all’art. 1, comma 169,
l. 311/2004, si fa poi più problematico il rapporto di tale potestà con quella che lo Stato esercita stabilendo i principi fondamentali della tutela della salute. Come noto, il primo tratto del confine tra dette potestà è stato tracciato dalla sentenza
n. 282 del 2002 , lungo una linea disegnata alla luce delle peculiarità tecniche della materia sanitarie, la cui logica di fondo ha tuttavia fatto stato in termini generali nella successiva giurisprudenza della Corte, ove è frequentissimo il richiamo proprio a questo passo della decisione.
In uno dei primi commenti alla sentenza fu osservato che la decisione della Corte di ricondurre alla potestà concorrente la selezione da parte del legislatore dei trattamenti sanitari ammessi (in quanto dotati di fondamento tecnico-scientifico validato dalle competenti istituzioni e corrispondente riconoscimento da parte della scienza e dell’arte medica) impone di domandarsi quale sia la relazione tra questa valutazione di appropriatezza compiuta dal legislatore e quella che, alla stregua dello stesso principio, sovrintende all’individuazione dei livelli essenziali. La Corte lasciò allora aperta
la quaestio e, ad oggi, non ci pare che su di essa vi siano stati particolari chiarimenti.
L’autore di quel commento proponeva di superare l’ambiguità segnalata valorizzando la duplice dimensione del principio di appropriatezza, che da un lato guarda all’efficacia delle prestazioni e dall’altro alla efficienza organizzativa e finanziaria delle medesime: in quest’ottica, la prima dimensione sarebbe da ritenere prevalente nell’ambito delle valutazioni legislative ex art. 117, comma 3, sull’ammissibilità delle terapie, giacché essa
si rivolge a disciplinare l’attività di tutela del diritto; la seconda dominerebbe invece l’individuazione dei livelli essenziali ex art. 117, comma 2, lett. m), giacché l’istituto sarebbe stato introdotto con la precipua funzione di distinguere quanto rientra nel contenuto prestazionale del diritto sociale da ciò che ne sta fuori. Tale sistemazione concettuale ha evidenti vantaggi, ma non sempre è in grado di tenere alla prova pratica, come dimostra il caso dei posti letto. Qui convergono valutazioni di appropriatezza dei c.d. macrolivelli, sul rapporto tra assistenza ospedaliera
e territoriale, che guardano sia all’efficacia delle cure sia all’efficienza dei servizi. La disposizione statale per cui la riorganizzazione della rete ospedaliera deve promuovere il passaggio «dal ricovero ordinario al ricovero diurno e dal ricovero diurno all’assistenza in regime ambulatoriale, favorendo l’assistenza residenziale e domiciliare» (art. 15, comma 13, lett. c), terzo periodo) offre un esempio convincente di un’ambivalenza difficile da sciogliere, laddove ha tutte le sembianze di un principio fondamentale della materia tutela della salute e, contestualmente, esprime una valutazione di appropriatezza alla base di diverse prescrizioni del decreto ministeriale n. 70/2015 (es. appendice n. 2) nelle quali si fondono vantaggi organizzativo-finanziari (es. possibilità di erogare volumi superiori di prestazioni; minor costo del regime di erogazione) e clinico-assistenziali (es. minore probabilità di infezioni ospedaliere).
Di fronte a “intrecci” come questi non è raro che la Corte preferisca (come accade con la sentenza n. 231 del 2017 per la gran parte delle disposizioni censurate) riconoscere l’impossibilità di far prevalere una competenza piuttosto che un’altra, trovando, quando l’assetto delle fonti lo rende possibile, un bilanciamento tra potestà statali e regionali nella previsione di adeguate procedure di leale collaborazione (come fa nella sentenza n.192 del 2017).
Il fatto che, alla prova pratica, l’attuazione degli standard ospedalieri sembri procedere, anche nell’ambito delle Province autonome , nonostante questi nodi teorici non siano stati sciolti, suggerisce che a “tenere” nel suo complesso è l’assetto cooperativo che caratterizza le scelte fondamentali di Stato e Regioni in materia sanitaria.

Note

1 Tale adeguamento, a fronte di una procedura d’infrazione aperta tre anni prima dalla Commissione dell’U.E., è avvenuto con la legge 30 ottobre 2014, n. 161, che ha abrogato le deroghe alla disciplina eurounitaria valide per la dirigenza sanitaria (art. 41, comma 13, decreto-legge 25 giugno 2008, n.112) e per il personale del ruolo sanitario (art. 17, comma 6-bis, d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66).
2 Art. 15, comma 13, lett. c), decreto-legge 6 luglio 2012 n. 95, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 135.
3 Che i contesti normativi di riferimento siano in effetti due trova conferma anche in un’altra delle disposizioni impugnate (il comma 574), la quale è connessa principalmente all’intervento legislativo sui posti letto negli ospedali e soltanto indirettamente può ricollegarsi a quello sull’orario di lavoro del personale sanitario.
4 Il riferimento è, naturalmente, alla potestà esclusiva statale di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. e a quella concorrente sulla tutela della salute, ma è noto come sia sempre più “strutturale”, nella normazione statale in materia sanitaria, anche la rilevanza della competenza ripartita sul coordinamento della finanza pubblica.
5 Cfr. punto 9.3.3 c.d., ove la Corte riconosce che le norme sull’orario e sui rapporti di lavoro del personale sanitario ineriscono, oltre che ai titoli di potestà legislativa richiamati alla nota precedente, anche a quelli concernenti l’ordinamento civile di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), e l’organizzazione amministrativa regionale di cui al quarto comma della stessa disposizione costituzionale.
6 Come noto, la sistematica applicazione dell’art. 10 l. cost. 3/2001 discende da due costanti affermazioni della Corte nella propria giurisprudenza successiva alla revisione del Titolo V: quella per cui la “tutela della salute” sia materia «assai più ampia» rispetto all’“assistenza sanitaria e ospedaliera” di cui al precedente testo dell’art. 117 Cost. e rispetto alle più o meno corrispondenti formule in uso negli statuti speciali (sent. n. 270 del 2005); quella per cui con la modifica costituzionale il legislatore abbia inteso segnare «una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina» (sent. n. 282
del 2002). Il che ha una conseguenza di primaria importanza: una volta applicata la clausola di maggior favore, la competenza delle Regioni speciali debba assoggettarsi anche «limiti, espressi od impliciti, contenuti nel nuovo Titolo V» (sent. n. 383 del 2005). Per questa concatenazione argomentativa, ben chiarita nell’ambito di un giudizio il cui peso è rilevante per quanto si dirà nel prosieguo, cfr. sent. n. 134 del 2006 (punto 8, c.d.). La situazione che così si determina pone in significativa continuità gli scenari ante e post revisione: per indicazioni sulla larga omologazione dell’autonomia speciale a quella ordinaria che caratterizza storicamente la materia sanitaria in M. COSULICH, Le sanità regionali «speciali», in R. BALDUZZI (a cura di), Diritto alla salute e servizi sanitari tra consolidamento e indebolimento, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 43 ss.
7 Quest’ultima caratteristica è proprio quella che segna il profilo di differenziazione di gran lunga più incisivo non solo tra Regioni ordinarie e speciali, ma anche tra Regioni speciali medesime: riferimenti puntuali in tal senso in M. COSULICH, Le sanità regionali «speciali», cit., spec. pp. 70-77; G. COSMELLI.
Vincoli alla spesa sanitaria regionale e garanzia dei Lea: il punto sull’autonomia legislativa e finanziaria delle Regioni a speciali alla luce degli ultimi sviluppi della giurisprudenza costituzionale (in margine a Corte Cost., sentt. nn. 36 e 51 del 2013), in www.issirfa.cnr.it, maggio 2013. Per un recente studio delle “sanità speciali” e, in particolare, per la disamina delle conseguenze dell’autofinanziamento nei rapporti tra potestà legislativa statale e regionale, cfr. R. BALDUZZI, D. PARIS, La specialità che c’è ma non si vede. La sanità nelle Regioni a Statuto speciale, in questa Corti Supreme e Salute, 2018, n. 1.
8 In esso figurano, nell’ordine: due declaratorie d’illegittimità parziale, di cui la prima per violazione del giudicato costituzionale; una dichiarazione d’inammissibilità per carenza di motivazione del ricorso limitatamente ad una parte, cospicua, dei parametri statutari invocati dalla Provincia autonoma di Bolzano; una decisione interpretativa di rigetto; una dichiarazione di manifesta infondatezza, concernente l’unica questione sollevata dalla Regione Veneto.
9 Poiché la questione qui all’attenzione non è stata sollevata dalla Regione Veneto, i riferimenti alle parti ricorrenti in giudizio, che seguiranno nel testo, vanno intesi come limitati alle due Province autonome.
10 V. punto 7, c.d.
11 In particolare, il criterio dei 3,7 posti letto per mille abitanti viene specificato dal legislatore, prevedendo che di tale valore, uno 0,7 debba essere destinato a posti letto per la riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie. Inoltre viene stabilito che l’adeguamento al predetto standard debba
effettuarsi assumendo a riferimento un tasso di ospedalizzazione pari a 160 per mille abitanti di cui il 25 per cento riferito a ricoveri diurni. Accanto a questi parametri numerici, il legislatore detta altresì ulteriori principi, stabilendo: che la riduzione dei posti letto sia a carico dei presidi ospedalieri pubblici per una quota non inferiore al 50 per cento del totale e avvenga esclusivamente attraverso la soppressione di unità operative complesse; che la riprogrammazione della rete ospedaliera debba tener conto della mobilità interregionale e rispettare la riorganizzazione dei servizi distrettuali e delle cure primarie finalizzate all’assistenza 24 ore su 24 sul territorio; che nell’ambito del processo di riduzione, le
Regioni verifichino la funzionalità dei piccoli ospedali e promuovano il passaggio «dal ricovero ordinario al ricovero diurno e dal ricovero diurno all’assistenza in regime ambulatoriale, favorendo l’assistenza residenziale e domiciliare».
12 Cfr. C. cost., sent. n 134 del 2006, ove, valorizzando il principio di leale collaborazione, la Corte qualificò il decreto ministeriale quale strumento per la specificazione dei Lea e ne corresse l’iter di approvazione richiedendo, in luogo del mero parere della Conferenza Stato-Regioni, il più stringente adempimento dell’intesa già previsto dalle norme di legge riguardanti la declaratoria dei livelli essenziali.
Sul rilievo sistemico di tale decisione cfr. le note di L. CUOCOLO, Livelli essenziali: allegro, ma non troppo e di E. PESARESI, Art. 117, comma 2, lett. m), Cost.: la determinazione anche delle prestazioni?
Tra riserva di legge e leale collaborazione, possibili reviviscenze del potere di indirizzo e coordinamento, entrambe in Giurisprudenza costituzionale, 2006, n. 2, rispettivamente pp. 1264 ss. e 1273 ss.
13 Cfr. art. 1, comma 4, del decreto ministeriale.
14 Non sembra fuori luogo notare che una condivisione sostanziale di tali indirizzi, ad iniziare dalla riduzione dei posti letto in linea con i parametri statali, è rilevabile presso le stesse Province ricorrenti, le quali in diversi provvedimenti di riorganizzazione della rete ospedaliera prendono a riferimento gli standard nazionali (in alcuni casi prima ancora della emanazione del decreto ministeriale, essendo stati tali standard già approvati in occasione dell’intesa dell’agosto 2014): cfr. le delibere della Giunta bolzanina n. 171 del 10 febbraio 2015 e n. 1331 del 29 novembre 2016 e le delibere della Giunta trentina n. 2114 del 5 dicembre 2014 e n. 1117 del 7 luglio 2017.
15 La causa viene discussa di fronte alla Corte, con relatore il vicepresidente Paolo Maria Napolitano (poi sostituito per la redazione dal giudice Aldo Carosi), nell’udienza pubblica del 24 marzo 2015. La decisione viene deliberata però il 6 giugno dello stesso anno e depositata il successivo 2 novembre. Il decreto ministeriale è stato invece emanato il 2 aprile e pubblicato in G.U. il 4 giugno 2015; peraltro, il testo provvisorio del decreto (e del suo allegato tecnico) era da tempo noto nella versione sulla quale la Conferenza Stato-Regioni aveva espresso l’intesa il 5 agosto 2014 e il Consiglio di Stato aveva reso i propri pareri interlocutorio (23 ottobre 2014) e definitivo (15 gennaio 2015).
16 Punto 8 c.d., settimo capoverso, della sentenza n. 231 del 2017.
17 L’inquadramento veniva effettuato dalla Corte con rinvio in particolare alla sentenza n. 289 del 2010. Non è possibile compiere in questa sede un esame della normativa statale e “pattizia” in tema di ridefinizione dei posti letto ospedalieri, cui faceva riferimento la decisione menzionata – avente ad oggetto una norma di legge regionale attuativa di siffatta normativa –; di un simile esame si segnala però l’utilità al fine di ripercorrere correttamente le “tappe” che hanno condotto alla fissazione degli standard nazionali sull’assistenza ospedaliera (a tal fine, spunti ricostruttivi in D. BELVEDERE, Lo scrutinio di costituzionalità delle leggi provvedimento: variabilità della soluzione ed “evanescenza” dei relativi criteri utilizzati dalla giurisprudenza costituzionale, in Rivista AIC, 2011, n. 1, pp. 8-9).
18 Cfr. punto 4.1, quarto capoverso, della sentenza n. 125 del 2015, ove si legge che «A tale argomento si aggiunge il rilevo che, ai sensi dell’art. 34, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), “La regione Valle d’Aosta e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono al finanziamento del Servizio sanitario nazionale nei rispettivi territori, senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato […]”. Dunque, come meglio chiarito in prosieguo, lo Stato non ha comunque titolo per dettare norme di coordinamento finanziario che definiscano le modalità di contenimento di una spesa sanitaria interamente sostenuta da tali enti» (c.vi nostri).
19 In argomento v. E. CAVASINO, L’individuazione dei principi fondamentali in materia di potestà legislativa concorrente fra criterio sostanziale-materiale e criterio della struttura nomologica, in Nuove autonomie, 2009, n.1, pp. 192 ss.
20 Cfr. punto 10.1 r.f., della sentenza n. 125 del 2015.
21 Le tre citazioni riportate nel testo si ritrovano in questi termini della sentenza n. 125 del 2015 (punto 4.1, c.d.) e sono tratte a loro volta, rispettivamente, dalle sentenze nn. 115 del 2012, 207 del 2010 e 200 del 2009 (le prime due vertenti in materia sanitaria, la terza in materia scolastica).
22 Art. 2, comma 2, del D.P.R. 474/1975. Come noto, la materia igiene e sanità è rimessa, ai sensi dell’art. 9 dello Statuto, alla potestà legislativa ripartita delle Province autonome.
23 Punto 4.1, penultimo capoverso, c.d. della sentenza n. 125 del 2015.
24 In tal senso, oltre al passaggio richiamato supra in nota 18, si veda altresì il punto 4.1, ottavo capoverso, secondo periodo, della sentenza n. 125 del 2015.
25 Un primo bilancio di tale esperienza è stato tracciato dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) nel numero 38/2015 della rivista Monitor. L’attuazione del regolamento, peraltro, è oggetto dell’attività di monitoraggio di un apposito “Tavolo” ministeriale, istituito in base all’intesa Stato-Regioni del 2 luglio 2015 (proprio agli adempimenti informativi funzionali a tale monitoraggio fa riferimento l’art. 1 comma 541, lett. c), l. 208/2015, che figura tra le disposizioni impugnate dalle ricorrenti e fatte salve dalla Corte nella sentenza n. 231 del 2017).
26 Non è un caso che, all’indomani della sentenza n. 134/2016 della Corte costituzionale, in dottrina vi fu chi accostò il potere dello stato di specificare i livelli essenziali (nella versione validata e corretta dal giudice costituzionale in base al principio di leale collaborazione) al potere di indirizzo e coordinamento che aveva caratterizzato la prima stagione del regionalismo italiano. Per questo accostamento, cfr. E. PESARESI, Art. 117, comma 2, lett. m), Cost.: la determinazione anche delle prestazioni?, cit. 27 Nonché i restanti tre periodi. Di tale valutazione di consequenzialità non convince affatto quella relativa al terzo periodo del comma, giacché, al di là del dato formale racchiuso nell’incipit di tale periodo, la norma ivi contenuta appare avere tutte le caratteristiche sostanziali di un principio fondamentale in materia di tutela della salute, sub specie organizzazione sanitaria.
28 Quanto questa ambiguità (che, come tale, lasciava aperta ipotesi divergenti circa la sorte della norma che prevede l’adozione del regolamento) sia intenzionale non è possibile saperlo, anche se non depone a favore di una perfetta conoscenza dei rapporti tra la disposizione impugnata e il d.m. 70/2015 il fatto che la Corte riferisca, senza poi correggere, l’affermazione (cfr. punto 9, r.f.), attribuita alla difesa della Provincia di Bolzano, secondo la quale l’art. 15, comma 13, lett. c), avrebbe trovato attuazione ad opera del d.m. 18 ottobre 2012, attuativo, invece, del comma 15 di tale articolo. Tale decreto, che ha rideterminato le tariffe massime di diversi tipi di prestazioni remunerabili dalla Regione alle strutture sanitarie accreditate, pur citando in premessa il comma 13 dell’art. 15 d.l. 95/2012 (al solo scopo di evidenziare che la revisione delle tariffe tiene conto anche del «percorso di rideterminazione in riduzione degli standard strutturali e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera» avviato dal comma 13 medesimo), realizza chiaramente la previsione legislativa di cui al successivo comma 15 (il quale disponeva che «In deroga alla procedura prevista dall’articolo 8-sexies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, in materia di remunerazione delle strutture che erogano assistenza ospedaliera ed ambulatoriale a carico del servizio sanitario nazionale, il Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto, entro il 15 settembre 2012, determina le tariffe massime che le regioni e le province autonome possono corrispondere alle strutture accreditate, di cui all’articolo
8- quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni, sulla base dei dati di costo disponibili e, ove ritenuti congrui ed adeguati, dei tariffari regionali, tenuto conto dell’esigenza di recuperare, anche tramite la determinazione tariffaria, margini di inappropriatezza ancora esistenti a livello locale e nazionale»).
29 Non sembra sostenibile, infatti, che il regolamento tragga legittimità dal solo art. 1, comma 169, l. 311/2004, nel momento in cui non solo esso si dichiara nelle premesse e nell’articolato attuativo dell’art. 15, comma 13, lett. c), d.l. 95/2012, ma ne sviluppa sul piano sostanziale tutti gli indirizzi, risultandovi vincolato anche con riferimento al rispetto dei parametri sui posti letto previsti dal decreto-legge.
30 O, più correttamente, della generalità delle Regioni non sottoposte a piano di riqualificazione e rientro, dal momento che, per quelle in piano, la fissazione di parametri dettagliati come quelli in discorso trova sistematicamente la copertura dell’art. 117, comma 3, Cost., in quanto, ai sensi della costante posizione della Corte costituzionale, tali prescrizioni sono ritenute coessenziali all’attuazione della disciplina legislativa dei predetti piani, la quale detta principi fondamentali del coordinamento finanziario: sulla “costruzione” giurisprudenziale di tale copertura, oltre ai riferimenti presenti nella nota di A. PATANÈ alla sentenza della Corte n. 106/2017 pubblicata in Corti Supreme e Salute, 2018, n. 1, cfr. D. PARIS, Il Titolo V alla prova dei Piani di rientro: delegificazione dei principi fondamentali e asimmetria fra Stato e Regioni nel rispetto delle procedure di leale collaborazione, in Le Regioni, 2014, nn. 1-2, pp. 203 ss. Sulla concepibilità del piano di rientro come strumento della leale collaborazione, cfr. G. CARPANI, I Piani di rientro tra emergenze finanziarie e l’equa ed appropriata erogazione dei LEA, in R. BALDUZZI (a cura di), La sanità italiana alla prova del federalismo fiscale, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 25 ss. Sulle condizioni di assoggettabilità delle autonomie speciali ai piani di rientro, cfr. G. COSMELLI,
Vincoli alla spesa sanitaria regionale e garanzia dei Lea, cit., il rinvio al quale vale anche per un sintetico chiarimento circa la “gradualità” dei limiti che, in materia sanitaria e fuori di essa, lo Stato può imporre alle Regioni speciali a seconda del livello di autonomia finanziaria di cui esse godono nei singoli settori materiali di competenza. Sul tema del coordinamento della finanza pubblica nei confronti delle regioni
ad autonomia differenziata, cfr., per un’ampia trattazione, R. TONIATTI, F. GUELLA (a cura di), Il coordinamento dei meccanismi di stabilità finanziaria nelle Regioni a statuto speciale, Trento University Press, Trento, 2014.
31 Tutte, tranne il comma 574, lett. b): v. infra nota 33.
32 Prescrizioni strettamente connesse all’attuazione delle nuove norme orario lavoro.
33 Si tratta delle restanti lettere del comma 541 e dei commi 542, 543 e 544 dell’art. 1, l. 208/2015: cfr. spec. punto 9.4, c.d.; viene invece dichiarato illegittimo, per la parte in cui si applica alle Province autonome, il comma 574, lett. b), il quale, pur versando in uno spazio normativo che egualmente vede il predetto intreccio di competenze, non può essere assoggettato alla medesima interpretazione conforme perché recante la puntuale indicazione delle misure alternative adottabili dalle Regioni per garantire l’effetto dell’invarianza finanziaria perseguito dalla disciplina statale (cfr. punto 10, c.d.).
34 Vale la pena precisare che questo inquadramento costituzionale è utile a chiarire anche i termini di efficacia della “clausola di salvaguardia” che l’art. 3, comma 1, del decreto ministeriale contiene a beneficio delle Regioni ad autonomia speciale (la quale prevede che «Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano applicano il presente decreto compatibilmente con i propri statuti di autonomia e con le relative norme di attuazione e, per le regioni e le province autonome, che provvedono autonomamente al finanziamento del Servizio sanitario regionale esclusivamente con fondi del proprio bilancio, compatibilmente con le peculiarità demografiche e territoriali di riferimento nell’ambito della loro autonomia organizzativa»). Infatti, se è opportuno ricordare che tale clausola, in assenza di una base legislativa del decreto costituzionalmente legittima, non potrebbe supplire a siffatta carenza (neppure in ragione della procedura di leale collaborazione dalla quale scaturisce l’atto), va altresì osservato che essa deve trovare un’applicazione il più possibile improntata a una interpretazione stretta, poiché deroga a previsioni per loro natura funzionali ad assicurare un trattamento uniforme e appropriato su tutto il territorio nazionale: in altri termini (una volta acclarata l’applicabilità dell’art. 10 l.cost. 3/2001 e il conseguente assoggettamento delle Province ricorrenti ai medesimi limiti che, in materia sanitaria, incontrano le altre Regioni), è l’autonomia speciale a doversi adattare alle specificazioni dei livelli essenziali, grazie ai margini di flessibilità concessi dalla clausola, e non viceversa.
35 L’atto, infatti, si apre con un articolo 1 che afferma che gli standard sono definiti nell’allegato tecnico del decreto, mentre l’obbligo di adozione di un provvedimento di programmazione generale di riduzione della dotazione di posti letto è contenuto al comma 2. Si potrebbe così avere l’impressione che anche il decreto distingua i due elementi; impressione, tuttavia, che deve presto lasciare il passo ad una diversa interpretazione, giacché i seguenti commi dell’articolo 1 (in particolare il quinto) non consentono di dubitare della stretta interrelazione tra la riprogrammazione della rete ospedaliera in base al nuovo standard – appunto – di dotazione dei posti letto e i criteri illustrati analiticamente nell’allegato.
36 Che la “trasparenza” del riferimento agli standard abbia un suo rilievo nel giudizio della Corte lo si può ricavare non solo dalla sentenza n. 231 del 2017 (punto 9.3.1, c.d.) ma anche dalla n. 192 dello stesso anno (punto 6.3, c.d.).
37 La Corte parla dei livelli relativi alle prestazioni sanitarie ma, anche in ragione della scelta dei precedenti sui quali fonda l’affermazione (in particolare della sent. n. 200 del 2009), non sembra riferirsi soltanto a questo settore.
38 Cfr. es. C. cost., sentt. nn. 80 del 2007, punto 7.1, c.d.; 166 del 2008, punto 3, c.d.; 209 del 2009, punti 2.1 e 3.2, c.d.; 121 del 2010, punto 7, c.d., ove compare in termini significativi la qualificazione dei livelli essenziali come minimi; analogamente cfr. l’utilizzazione della locuzione «soglia minima» in C. cost., sent. n. 387 del 2007, punto 5.1, c.d.; per alcuni esempi di ricorso alla qualificazione di «standard minimi» v. C. cost., sentt. nn. 115 del 2012, punto 2, c.d.; 141 del 2016, punto 5.6.3, c.d.
38 Ne fa una breve e precisa rassegna C. TUBERTINI, Pubblica amministrazione e garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni. Il caso della tutela della salute, Bologna, Bononia University Press, 2008, pp. 44-49.
39 Il primo di tali effetti è che la coincidenza tra “minimi” ed “essenziali” collocherebbe il parametro dell’essenzialità nella dimensione delle risorse disponibili e non dei bisogni della persona, innescando un circolo vizioso rispetto all’evoluzione universalistica del nostro welfare state determinata dalla tipo garanzia dei diritti sociali prestata dalla nostra Costituzione. Lo scontro tra le opposte spinte di politica economico-sociale ha segnato una fase decisiva dello sviluppo del SSN ed è questa una delle ragioni per cui in sanità si ritrovano tanto il modello di riferimento dell’istituto dei Lep poi costituzionalizzato nel 2001 quanto le ragioni di fondo dell’alternatività tra “minimi” ed “essenziali”: ricostruisce questi aspetti R. BALDUZZI, Livelli essenziali di assistenza vs. livelli minimi, in G. BARBERIS, I. LAVANDA, G. RAMPA, B. SORO (a cura di), La politica economica tra mercati e regole, Soveria Mannelli, Rubettino, 2005, pp. 49 ss., il quale già alla fine degli anni Novanta individuava nel Piano sanitario nazionale 1998-2000 e nella legge delega n. 419/1998 i passaggi chiave ove rinvenire la concezione dei livelli essenziali più coerente con la tutela costituzionale del diritto alla salute: cfr. ID., Il Servizio sanitario nazionale tra razionalizzazione delle strutture e assestamento normativo (riflessioni sulla legge 30 novembre 1998, n. 419), in Quaderni regionali, 1998, n. 1, pp. 941 ss. Poiché tale circolo vizioso può trovare terreno fertile in una certa concezione del regionalismo, è particolarmente persuasiva l’opinione di chi ha sottolineato proprio la stretta connessione tra rischio di “dequotazione” dell’eguaglianza dei cittadini e visione “asimmetrica” o competitiva della clausola costituzionale sui livelli (in questi termini A. POLICE, Federalismo “asimmetrico” e dequotazione dell’eguaglianza: le fragili fondamenta della cittadinanza amministrativa, in Diritto dell’economia, 2002, pp. 489 ss.; C. TUBERTINI, Pubblica amministrazione e garanzia, cit., p. 47).
40 Ne segnalano aspetti attuali e problemi aperti ad es. R. BALDUZZI, Un inusitato intreccio di competenze. Livelli essenziali e non essenziali, in L. VIOLINI (a cura di), Verso un decentramento delle politiche di welfare. Incontri di studio “Gianfranco Mor” sul diritto regionale, Milano, Giuffrè, 2011, pp. 79 ss.; C. PANZERA, Mediazione politica e immediatezza giuridica dei livelli essenziali delle prestazioni, in Le Regioni, 2013, n. 5-6, pp. 1001 ss.; M. BELLETTI, Le Regioni «figlie di un Dio minore». L’impossibilità per le Regioni sottoposte a Piano di rientro di implementare i livelli essenziali delle prestazioni, ivi, pp. 1078 ss.
41 Che la Corte, in effetti, abbia questa opinione sembra manifestarlo essa stessa affermando che «le prestazioni attualmente assicurate dal servizio sanitario provinciale presentano livelli sicuramente superiori a quelli previsti dalle disposizioni impugnate» (punto 4.1).
43 In quest’ottica alla Corte spetterebbe semmai verificare la correttezza del bilanciamento.
44 Propone una logica “incrementale” dei Lep C. PANZERA, Mediazione politica e immediatezza, cit.
45 C. TUBERTINI, Pubblica amministrazione e garanzia, cit., p. 48.
46 Cfr. ad es. C. cost., sent. n. 32 del 2012.
47 Il riferimento è alle note affermazioni contenute nel punto 3, c.d.: «Quanto poi ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, non si tratta di una “materia” in senso stretto, ma di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle. Nella specie la legge impugnata non riguarda tanto livelli di prestazioni, quanto piuttosto l’appropriatezza, sotto il profilo della loro efficacia e dei loro
eventuali effetti dannosi, di pratiche terapeutiche, cioè di un’attività volta alla tutela della salute delle persone, e quindi pone il problema della competenza a stabilire e applicare i criteri di determinazione di tale appropriatezza, distinguendo fra ciò che è pratica terapeutica ammessa e ciò che possa ritenersi intervento lesivo della salute e della personalità dei pazienti, come tale vietato. Sono coinvolti bensì fondamentali diritti della persona, come il diritto ad essere curati e quello al rispetto della integrità psicofisica e della personalità del malato nell’attività di cura, ma, più che in termini di “determinazione di livelli essenziali”, sotto il profilo dei principi generali che regolano l’attività terapeutica».
48 E. MENICHETTI, Le pratiche terapeutiche nel nuovo assetto costituzionale: la tutela della salute tra principi fondamentali e livelli essenziali (osservazioni a margine della sentenza Corte cost. 26 giugno
2002, n. 282), in Amministrazione in cammino, 26 novembre 2002.
49 V. supra nota 14.

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Segretario Scientifico CEIMS Università Piemonte Orienrale