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HomeN1/018Il perseguimento dell’equilibrio del Sistema Sanitario Nazionale. Riflessioni sul Contributo delle diverse modalità di finanziamento e dell’evoluzione degli assetti istituzionali

Il perseguimento dell’equilibrio del Sistema Sanitario Nazionale. Riflessioni sul Contributo delle diverse modalità di finanziamento e dell’evoluzione degli assetti istituzionali

a

Il tema della sostenibilità del Welfare e al suo interno del SSN ruota attorno al nodo centrale
della ottimale allocazione delle insufficienti risorse pubbliche, secondo la teoria della
scelta normativa incentrata sul costo opportunità, tali da garantirne ancora il carattere di
uniformità e universalità che la nostra legislazione prevede quali punti cardine. Quanto
sopra in un contesto, in linea generale, caratterizzato dalla crescita sostenuta del bisogno
e della collegata domanda, peraltro, spesso, in condizioni di asimmetria informativa con
l’offerta, dalle maggiori aspettative della popolazione servita, in termini di qualità e quantità
dei servizi, dalla necessità di rinnovare il parco tecnologico, su cui si sta affacciando
l’impact investing, data l’intensificazione della curva tecnologica, che produce oggi innovazione
ed obsolescenza molto rapida.
Un tema, quello della ottimale e razionale utilizzazione delle risorse destinate al SSN,
che all’avvio del processo di “aziendalizzazione” fu ben chiaro anche alla Corte Costituzionale
la quale nella sentenza 21-28 luglio 1995 n. 416 osservava che “in presenza di
una inevitabile limitatezza di risorse, non è pensabile di spendere senza limite, avendo
riguardo ai soli bisogni, quale che ne sia la gravità e l’urgenza. E’ viceversa la spesa a dover
essere commisurata alle effettive disponibilità finanziarie, le quali condizionano la quantità
e il livello delle prestazioni sanitarie, da determinarsi previa valutazione delle priorità
e compatibilità e tenuto conto, ovviamente, delle fondamentali esigenze connesse alla
tutela del diritto alla salute”. Un sentenza che a distanza di quasi cinque lustri mantiene la
sua attualità.
Un primo elemento di riflessione, in proposito, è sicuramente fornito dai dati effettivi
di finanziamento, destinazione e impiego delle risorse. Il recente rapporto dell’ ISTAT “Il
sistema dei conti della Sanità per l’Italia”, datato 4 luglio 2017, ci offre un quadro estremamente
significativo. Nel 2016 la spesa sanitaria corrente è stata pari a 149 miliardi e 500
milioni con una incidenza sul PIL dell’8,9% ed è sostenuta per il 75% dal settore pubblico,
per il 22,7% dalla spesa diretta delle famiglie e per il restante 2,3% dai regimi di finanziamento
volontari.
La spesa sanitaria complessiva pro-capite è passata da 2.395 euro nel 2012 a 2.466
euro nel 2016. In tale esercizio essa è stata finanziata, in media, per 1.850 euro dalla pubblica
amministrazione, per 560 euro direttamente dalle famiglie e per 56 da regimi di
finanziamento volontari.
Quanto alla composizione per funzione il 54,9% della spesa è assorbita dalla assistenza
sanitaria per cura e riabilitazione – finanziata per l’81,1% dalla P.A. – , il 20,8% dai prodotti
farmaceutici e altri apparecchi terapeutici – finanziata per il 56,9% dalla P.A. ma per il
42,4% dalle famiglie -, mentre l’8,3% è destinato alla assistenza sanitaria a lungo termine
(LTC) – finanziata per il 76,3% dalla P.A. e per il 22,9% dalle famiglie.
I suddetti dati si possono completare con una breve lettura storica dell’incidenza della
spesa sanitaria pubblica sul PIL, a decorrere dalla introduzione del modello aziendali-

stico del 1992. Il grafico, che si traccia, non certo lineare della serie spesa sanitaria/PIL, è
legato ad un andamento non costante del PIL, ma anche ad un insieme di politiche pubbliche
fortemente incentrate sulla capacità di orientare la dinamica della suddetta spesa.
Basterà osservare che il primo profilo è strettamente correlato a diversi momenti storici
in cui variano le configurazioni degli assetti del SSN e dei contrappesi istituzionali: periodo
1992 – 1995 avvio della riforma aziendalistica, 1995-2001 maggiore delega al governo
degli attori del sistema, rafforzamento della regionalizzazione dopo il D.Lgs. 229/1999 e
crisi economica esplosa nel 2008. Per il secondo profilo sono crescenti e prevalenti le manovre
di contenimento attivate nel corso degli anni. Anche in tal caso, per porre l’accento
sui più rilevanti, si possono citare il blocco dei contratti collettivi nazionali di lavoro, gli
interventi in materia di farmaci, la “spending review” ampliata a tutto il settore dei beni e
servizi, i budget di produzione per le strutture private accreditate e infine la riorganizzazione
della rete dell’offerta ex D.M. 70/2015. Ciò parrebbe evidenziare che sono le politiche
dirigiste e le scelte extra – aziendali a garantire in concreto la sostenibilità del sistema.
A tale lettura si accompagna quella dell’incidenza della spesa sanitaria dei SSR rispetto
al PIL regionale. Con differenze significative tanto nella variazione dell’incidenza sul
PIL tra Regioni (anche del 25%) quanto nell’incidenza pro-capite al netto della mobilità
(stabile intorno al 7,5%). Questa evidenza dimostra che, se l’intensità di spesa è relativamente
poco variabile sul territorio, altrettanto non può dirsi della sua incidenza sul PIL
(con dati che oscillano da circa il 5% al Nord sino all’11% di alcune Regioni del Sud). Una
variabilità che, se non fosse livellata tramite il meccanismo perequativo, comporterebbe
una accentuazione delle differenze nella capacità delle Regioni di erogare i LEA. Inoltre
tale variabilità mette in luce il trade-off tra finalità di equità del SSN sul territorio nazionale
e spinte federaliste verso una maggiore responsabilizzazione delle Regioni sul controllo
della spesa.
Orbene, se il costo dell’assistenza sanitaria si sta lentamente omogeneizzando, la forchetta
della variabilità dell’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul PIL regionale va
aumentando. Tale evidenza segnala il contrasto tra un sistema che, per un verso, tende ad
uniformare le funzioni di costo e, per altro verso, si finanzia con sistemi economici locali
sempre più diversi tra loro.
Accanto a ciò l’introduzione della contabilità economico – patrimoniale – correttamente
integrata con il sistema dei flussi e la contabilità analitica – ha rappresentato una
dotazione importante, ad oggi non del tutto valorizzata anche se non sufficiente, spesso
anche per una applicazione dei principi contabili non sempre omogenea fra Regioni e
all’interno delle stesse singole Regioni, tale da consentire la rilevazione del dato contabile
non solo per natura ma anche per destinazione e, attraverso la riclassificazione del
Conto Economico e dello Stato Patrimoniale oltre all’utilizzo di indicatori, la selezione
dei livelli di attività (core e no core, gestione ordinaria e gestione straordinaria etc.) ed il
loro contributo all’efficienza ed all’equilibrio economico delle singole ASR e del sistema
nel suo complesso. La ridotta incidenza della spesa per il personale e per beni e servizi e
dunque della spesa per linee interne, a fronte della crescita per linee esterne, pone come
centrale la scelta del make or buy e della pianificazione strategica su cui debbono profonda
riflessione il livello istituzionale ed il management degli enti interessati.
Questa è la realtà fattuale, descritta da numeri e tabelle. Da lì pare muovere, tuttavia,
un progetto del regolatore politico di rivisitazione del SSN, finalizzato a garantirne sostenibilità
e universalità, secondo due direttrici di cui va valutata la complementarietà. Sitratta cioè, per un verso, del cambiamento degli assetti istituzionali e dei correlati modelli
di governance e, per altro verso, dei meccanismi di finanziamento ed efficientamento della
spesa. L’interrogativo su cui riflettere è la maggiore bontà e prevalenza dell’una sull’altra
o, come così come congegnate, dell’insufficienza di entrambe se non integrate in un
disegno complessivo che tenga conto della particolarità del servizio sanitario.
Sul primo punto non vanno dimenticati i generali processi di riordino avviati da tutte
le Regioni degli assetti istituzionali ed organizzativi dei servizi sanitari e socio-sanitari. Ma
anche di aggregazione (pensiamo ai livelli di acquisto dei beni e servizi – disegno questo
ancora ampiamente incompiuto) e di ridisegno delle reti clinico-assistenziali (anche attraverso
la riconversione dei presidi esistenti o la realizzazione di nuova concezione delle
strutture in progettazione). Con un riflesso sul piano economico non certo trascurabile.
Infatti l’accresciuta dimensione delle Aziende Sanitarie modifica radicalmente lo scenario
istituzionale di riferimento, su cui innestare i modelli di finanziamento delle ASR ossia i
meccanismi di riparto dei fondi sanitari regionali. E’ un fatto che l’ampliamento delle dimensioni
aziendali comporta una robusta e fisiologica riduzione della mobilità sanitaria
inter-aziendale, azzerando di fatto logiche competitive tra soggetti pubblici, così come è
un fatto che la reintegrazione di molte aziende ospedaliere – secondo quanto avvenuto in
Lombardia nel 2017 – comporta fisiologicamente una riduzione dello spazio per logiche
di finanziamento a tariffa.
E, tuttavia, proprio tale sperimentazione continua – mai si era assistito a così fertili
e variegati proposte e applicazione di modelli come nell’ultimo decennio – lascia aperta
la domanda centrale se esiste una dimensione ottimale per efficientare il SSN. La risposta,
credo, è verosimilmente no perché non si coglie il punto centrale della questione. In
effetti rispetto al complesso generale delle aziende brain – intensive (1) (ossia ad alta intensità
di capitale intellettuale imperniata sui professionisti) quelle pubbliche, e sanitarie
in particolare, si caratterizzano per alcune significative differenze fra cui l’assenza di un
mercato e un rilevante intreccio fra autonomia e dunque scelte gestionali e pervasività
del sistema istituzionale e politico.
(1) sul tema si veda diffusamente F. Lega “Management dell’azienda brain-intensive” (2008)
Detto ciò è evidente che la sola lettura del risultato di esercizio – con presenza o no di equilibrio
reddituale e monetario – nelle aziende pubbliche, in specie quelle sanitarie, non è sufficiente per la
loro valutazione, in quanto esse sono prioritariamente collegate al soddisfacimento degli interessi
generali della collettività e dunque i concetti di economicità ed efficienza emergono come strumenti
di gestione più che come indicatori di risultato. Vi è poi un secondo aspetto ancora più rilevante.
Se, per un verso, l’azienda pubblica opera in condizioni di mercato nell’acquisizione dei fattori produttivi,
per altro verso, non può utilizzare il prezzo come strumento di regolazione degli scambi, il
quale, tra l’altro, varrebbe quale meccanismo che consente di oggettivare i giudizi relativi all’utilità
delle prestazioni e dei servizi erogati. Il fatto che l’azienda sanitaria in quanto unità facente parte di
un gruppo più ampio – Stato o Regione – debba fronteggiare sacrifici economici legati alla necessità
– nell’interesse generale – di garantire uno specifico servizio pubblico anche quando ciò comporta
l’operare in condizioni di perdita strutturale pone in secondo piano l’ottimale definizione del suo
perimetro e del suo assetto organizzativo. Ciò accentua anche la difficoltà per il management di
usare la leva del risultato economico quale elemento per indirizzare e motivare la componente professionale.
Cui si aggiunge una minore spinta a ricercare migliori soluzioni organizzative nell’erogazione
dei servizi per la presenza, allo stato, di una condizione di sostanziale monopolio legale. Sdimenticare che lo stesso management si confronta con processi decisionali ultracomplessi perché
frammentati all’interno e condizionati dall’esterno, con una quota di disallineamento importante tra
i due livelli. Ma, se tutto ciò va comunque interiorizzato e non è negoziabile trattandosi per quella
sanitaria di una azienda di pubblica utilità, è sui tratti fondamentali della “aziendalizzazione” che
andrebbe nuovamente acceso un faro. E il riferimento è in particolare al dettato dell’art. 3, comma
1, D.Lgs. 502/1992 dove a qualificare l’azione della azienda sanitaria si individuano “l’autonomia organizzativa,
amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica e imprenditoriale”. Quanto
possono incidere tali funzioni nel dare efficienza al sistema? In misura maggiore o minore rispetto
alla riperimetrazione dell’azienda? E’ un quesito che andrebbe approfondito, fermo restando che
specie l’esercizio ampio dell’autonomia imprenditoriale in capo al Direttore Generale della azienda
sanitaria presuppone due condizioni: una relazione virtuosa tra la politica regionale – cui spetta il
ruolo di regolatore e finanziatore delle attività – e il management e, del pari, una rigorosa selezione
di un top management effettivamente autonomo e capace.
Se poi trasferiamo l’analisi sui meccanismi di determinazione e allocazione delle risorse nell’ambito
pubblico (Fondo SSN oggi meglio definito Fabbisogno standard del SSN) dobbiamo, in primis, ricordare
che essi sono articolati in più fasi nelle quali si affacciano tre livelli istituzionali: Stato, Regioni
e Aziende Sanitarie. Con una precisazione.
Tale sistema ha avuto una graduale evoluzione specie dopo la progressiva “regionalizzazione” della
sanità (D.Lgs 229/1999), passando per il D.Lgs. 56/2000, prima forma embrionale di federalismo
fiscale di fatto mai completamente attuata, e approdando, da ultimo, al D.Lgs 68/2011, il quale ha
disposto che a partire dall’esercizio 2013 il fabbisogno sanitario nazionale standard sia determinato
secondo i costi e fabbisogni medi standard regionali. Ogni anno il Ministero della Salute, di concerto
con Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, individua le cinque migliori Regioni che: a) abbiano
garantito l’erogazione dei LEA in condizioni di equilibrio economico, b) rispettino criteri di qualità
dei sevizi erogati, c) rispettino i criteri di appropriatezza ed efficienza, d) non siano assoggettate a
Piano di Rientro. Successivamente compete alla Conferenza Stato – Regioni, in sede politica, la individuazione
delle tre Regioni benchmark. Per la quantificazione del finanziamento a livello regionale,
il costo medio pro-capite delle tre Regioni benchmark viene rapportato alla popolazione pesata. Il
costo medio pro-capite ponderato viene poi moltiplicato per la popolazione di ciascuna Regione,
suddividendo i risultati così ottenuti per i tre Livelli e rispettivi sub-livelli Essenziali di Assistenza.
Quale clausola di salvaguardia per la migliore Regione benchmark è previsto che la quota percentuale
assicurata non può essere inferiore a quella già assicurata ala stessa Regione l’anno precedente
al netto delle variazioni di popolazione. In attuazione dell’art. 27, comma 5, D.Lgs. 06.05.2011 n. 68
viene calcolato l’IQE (Indicatore per la Qualità e l’Efficienza) per la scelta delle 5 Regioni eligibili,
calcolo determinato sulla base di 19 indicatori fra i quali il punteggio della “Griglia LEA” e l’incidenza
percentuale dell’avanzo/disavanzo sul finanziamento ordinario desunto dai dati del CE consuntivo
dei consolidati regionali.
Su tale punto si è obiettato e si obietta rispetto alla effettiva applicazione del combinato disposto degli
artt. 26 e 27 del suddetto Decreto in cui si pongono le premesse per una generale sovrapposizione
e confusione nell’uso dei termini fabbisogno, spesa e costo standard. Cui si aggiungono regole di
fissazione degli standard non univocamente interpretabili, assenza di indicazioni sulle spese in conto
capitale, insufficiente definizione delle modalità di dimensionamento dei flussi di perequazione tra
Regioni, problemi nell’individuazione delle Regioni benchmark e nella loro graduazione. Considerazioni
che fanno dire della difficoltà di dare forma empirica ad un modello di finanziamento che
tenga assieme efficientamento ed equità.
A queste considerazioni di carattere più generale, più aderenti e conseguenti alla non chiarezza deldettato normativo, si aggiunge un secondo nodo che attiene agli aspetti tecnici di costruzione e
definizione del costo standard. E in proposito emerge chiaramente un equivoco o, forse, ancor più,
una scorciatoia. Quello che si perimetra con ossessionante ricorrenza come costo standard per bene
(dalla garza alla siringa) o servizio (dalla mensa alla pulizia) in realtà non vale ad esprimere un effettivo
benchmark comparativo tra i migliori mix-input produttivi sanitari di alcune Regioni capofila
nell’efficienza e, aspetto non trascurabile, di outcome in ordine agli esiti di cura. In sostanza la scorciatoia
– prezzo di riferimento del bene o servizio, peraltro, in tempi recenti oggetto di contenziosi
sulla loro bontà – non considera la necessità di una analisi globale dei singoli output/outcome avvalendosi
della possibile interazione tra la disponibilità di strumenti ampiamente applicati in altri
contesti quali la contabilità analitica e il procedimento bottom-up con cui si può addivenire alla
definizione del miglior costo per processo, per PDTA o per patologia ricompresa nei LEA, consentendo,
in tal modo, mediante sommatoria, di definire il fabbisogno di risorse standard da assegnare
alla singola Regione.
La realtà ci pone, invece, di fronte ad un finanziamento standard che premia le singole Regioni
sulla base della maggiore popolazione residente, di un maggiore indice di anzianità con eventuale
correzione applicando un indicatore – peraltro non è chiaro con quale peso – di deprivazione socioeconomica.
Con una specifica ulteriore, derivante dal tenore del comma 6 dell’art. 27 del suddetto
Decreto, laddove prevede che “i costi standard sono computati a livello aggregato per ciascuno dei
tre macrolivelli di assistenza…… e che il valore di costo standard è dato, per ciascuno di essi erogato
in condizione di efficienza e appropriatezza, dalla media pro-capite pesata del costo registrato dalle
regioni di riferimento”.
La sostanza è che, mancando in sede regionale strumenti inequivocabili e omogenei di metrica di
valutazione dei costi integrati con i modelli e le strutture di offerta dei servizi, il fabbisogno viene
individuato in sede politica e non in sede tecnica.
Questo scenario è stato di recente implementato. Ma secondo una prospettiva diversa e di settore.
Il passaggio da parametri di efficienza – in realtà la media delle Regioni migliori – per valorizzare la
quota capitaria a logiche tariffarie e di ricavi per funzione per guidare l’efficientamento delle strutture
ospedaliere. Muovendo da alcuni presupposti. Due in particolare fissati nel D.Lgs. 502/1992,
all’art. 1, comma 2, che prevede il rapporto tra risorse finanziarie e LEA nel rispetto di equità di
accesso, qualità delle cure, appropriatezza e economicità nell’impiego delle risorse stesse e all’art. 4,
commi 8 e 9, in cui si fissa l’esigenza dell’ equilibrio di bilancio per le Aziende Ospedaliere e i Presidi
dell’Unità Sanitaria Locale.
L’Intesa Stato – Regioni 02.07.2015 Punto J lett. a) in materia di riorganizzazione del sistema aziendale
ha poi validato la valutazione e il miglioramento della produttività, intesa quale rapporto tra valore
prodotto – quantitativo e economico – e fattori produttivi impiegati – quantitativi e economici.
Un punto programmatico che ha trovato esplicitazione normativa nella Legge 28.12.2015 n. 208,
art. 1, comma 535 prevedendo che a decorrere dal 2017, le disposizioni di cui ai commi da 521 a 547,
si applicano alle aziende sanitarie locali e ai relativi presidi a gestione diretta e comma 536 in cui si
dispone che con Decreto del Ministero della Salute sono apportati i necessari aggiornamenti ai modelli
di rilevazione dei costi dei presidi ospedalieri a gestione diretta delle aziende sanitarie, anche
al fine di valutare l’equilibrio della gestione dei P.O. in rapporto alla loro remunerazione tariffaria ed
extra – tariffaria.
In tal senso vengono fissate le condizioni che impongono il Piano di Rientro, ossia: a) uno scostamento
tra Costi rilevati dal modello di rilevazione del Conto Economico (CE) Consuntivo e Ricavi
quali remunerazione dell’attività ex art. 8-sexies del D.Lgs. 502/1992 pari o superiore al 10 per cento
dei suddetti ricavi, o, in valore assoluto, pari ad almeno 10 milioni di euro; b) il mancato rispetto deparametri relativi a volumi, qualità ed esiti delle cure.
Da ultimo la Legge 11.12.2016 n. 232 all’art. 1, comma 390: ridetermina lo scostamento tra Costi rilevati
dal modello di Rilevazione del Conto Economico (CE) Consuntivo e Ricavi quali remunerazione
dell’attività ex art. 8-sexies del D.Lgs. 502/1992 in misura pari o superiore al 7 per cento dei suddetti
ricavi, o, in valore assoluto, pari ad almeno 7 milioni di euro.
Infine con l’emanazione del Decreto del Ministero della Salute 21.06.2016 si sono approvati la metodologia
per la individuazione dei Costi e per la determinazione dei Ricavi -Allegato Tecnico A –, degli
ambiti assistenziali e la definizione dei parametri di riferimento relativi a volumi, qualità ed esiti
delle cure -Allegato Tecnico B – nonché le -Linee Guida per la predisposizione del Piano di Rientro.
In particolare nell’Allegato Tecnico A vi è la definizione di inefficienza gestionale, scostamento assoluto
e scostamento percentuale, rappresentati in questi termini:
Scostamento Assoluto (S) = Costi – Ricavi Massimi Ammissibili
dove
Costi = Costi da CE – Oneri Straordinari
Ricavi massimi ammissibili = Ricavi da prestazioni + finanziamento a funzione (massimo del 30% sul
totale della remunerazione assegnata) + altri ricavi da entrate proprie, sterilizzazione e relativi alla
gestione finanziaria.
Vi è, però, necessità di fare chiarezza sui costi dei beni e servizi (per natura) e sulla loro applicazione
(per destinazione), ma anche di passare da una analisi per prodotto ad una per processo. Una
cosa sono, infatti, i costi intesi come risorse consumate per un dato prodotto o servizio e la spesa
standard, quella del modello LA, preso a riferimento dalla normativa per individuare le Regioni
benchmark, altro sono i costi standard costruiti bottom up e secondo diagrammi economici. Oggi
si assume che gli standard rappresentino gli strumenti per ripartire/allocare le risorse in sanità. In
realtà la spesa standard vale a definire le quote assegnate dallo Stato alle Regioni e da queste alle
ASR, mentre il costo standard è strumento per determinare le tariffe, remunerare specifiche funzioni
(specie per il privato accreditato) e governare le compensazioni tra Regioni e all’interno delle
medesime per la mobilità sanitaria. Un meccanismo che dovrebbe premiare, applicando i modelli
esistenti, chi sta meglio sulla curva dell’efficienza. Da dove si parte? A questo punto non dai bilanci,
perché non sono modelli di efficienza, ma dall’analisi organizzativa e da un modello bottom up dei
processi produttivi.
Lo scenario sopra delineato pare, infatti, stridere con le logiche unitarie di sistema. Le accresciute dimensioni
delle aziende sospingono verso logiche di riparto fondate sull’equità e la programmazione
ex ante, in cui si preferiscono meccanismi di riparto a quota capitaria piuttosto che logiche tariffarie
e logiche negoziali. Su altro versante, tuttavia, il legislatore e il Ministero della Salute paiono andare
in direzione diversa laddove ci si concentra sull’equilibrio economico dei singoli presidi ospedalieri,
calcolato con costi e ricavi in funzione della produzione. Una incoerenza che riporta al centro della
discussione il mai sopito dibattito tra finanziamento a quota capitaria o a tariffa – inclusi i tecnicismi
della loro scientifica determinazione – e tra le funzioni di committenza e di produzione.
Proprio su tale aspetto necessitano riflessioni ulteriori da pare dello Stato e delle Regioni. Il che, su
tutto, esige una capacità di innovare in termini di strumenti – economici e informativi – che consentano
di fornire al decisore politico formazioni sufficientemente analitiche ma anche fondate quali
driver per l’allocazione delle risorse. E di evitare il peccato originale che anche la legge n. 208/2015
e il successivo decreto del Ministero delle Salute del 2016 non hanno superato: il partire dai costi
effettivi ossia dalla spesa rilevata e non dai costi standard ossia da quelli che, applicati a quel modello
organizzativo, dovrebbero consentire di individuare anche i margini di efficientamento del sistemasenza scadere necessariamente in tagli lineari motivati dalla necessità di garantire un dato squilibrio
ritenuto ammissibile tra i ricavi e i costi rilevati dei Conti Economici delle singole Aziende. Il che
potrebbe consentire di rideterminare i modelli di allocazione delle risorse vincolandole non al cosa
c’è, ma al cosa si fa e per chi lo si fa e dunque all’analisi dei flussi dei pazienti, alla migliore appropriatezza,
ai positivi riflessi in termini di esiti.

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Direttore Amministrativo Asl di Alessandria