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HomeN1/018Esiste un modello sanitario piemontese?

Esiste un modello sanitario piemontese?

a

Modelli e sistemi sanitari

Il quesito dal quale prende le mosse il presente rapporto necessita di alcune precisazioni
preliminari. Domandarsi se esista o meno un modello sanitario piemontese, infatti, comporta
che si rifletta anzitutto sul significato e sulla funzione della figura dei modelli sanitari
regionali o, meglio, attesa la pacifica esistenza nel nostro paese di ventuno1 servizi sanitari
regionali, sul senso che può avere attribuire la qualità di modello a uno, ad alcuni o alla totalità
di essi oppure, che è ancora diverso, ricondurre ciascuno di essi entro una tipologia
di modelli.
Come noto, di modelli si può anzitutto parlare a livello di sistemi sanitari nazionali,
con ricorso a classificazioni variabili, spesso afferenti al campo di studi delle scienze
economiche e sociali. Così, le proposte classificatorie più diffuse pongono al centro le
due dimensioni macrostrutturali che connotano alle fondamenta la configurazione e il
funzionamento dei sistemi sanitari, quella del finanziamento e quella della produzione
dei servizi, disegnando la propria tipologia in base alla prevalenza degli attori pubblici
o di quelli privati all’interno di tali dimensioni3. Talora, classificazioni di questo genere
concentrano l’attenzione primariamente su fonti e schemi di finanziamento e, sempre
avvalendosi della dicotomia pubblico/privato, danno luogo a tipologie più articolate centrate
su tale variabile . Altre proposte, ambendo ad una visione più complessa in grado di
evidenziare all’interno dei principali modelli la logica che li governa, affiancano alle predette
dimensioni macrostrutturali, quelle dei valori e dei principi ispiratori, da un lato, e
i processi di regolazione, dall’altro.
Ogni classificazione origina necessariamente dalla comparazione tra sistemi sanitari
nazionali esistenti, tanto che è frequente contrassegnare ciascun idealtipo con il riferimento
ad uno o più sistemi paradigmatici del medesimo . Il che conferma che lo studio
dei modelli, trovando nella comparazione il proprio punto di avvio e, spesso, anche parte
determinante dell’approdo finale (nel momento in cui i modelli astratti divengono strumenti
euristici e valutativi dei sistemi reali), deve fare i conti con i contesti di sviluppo
di ciascun sistema/modello tanto sul piano spaziale quanto su quello temporale. Questa
circostanza viene ricordata in particolare da chi affronta il tema da un punto di vista
di analisi comparata delle politiche pubbliche sanitarie, nel cui ambito un’importanza
fondamentale ha l’assunzione di una prospettiva storica di evoluzione dei sistemi e dei
modelli .
Entro questa prospettiva risulta difficile negare una priorità, tra le variabili fondanti le
diverse tipologie classificatorie, a quella del finanziamento del sistema, in grado di manifestare
i valori fondamentali che lo ispirano e di conformarne la struttura al cui interno
possono secondariamente combinarsi, secondo soluzioni anche notevolmente differenziate,
le variabili attinenti alla produzione e gestione dei servizi o alla organizzazione della
governance. È infatti con riferimento a tale variabile principale che la storia dei sistemi
sanitari dei paesi più avanzati ci consegna essenzialmente tre opzioni fondamentali: l’op-

zione per un sistema di assicurazioni private, organizzato attraverso contratti individuali
e volontari basati su premi commisurati al rischio attuariale del singolo; l’opzione per un
sistema di assicurazioni sociali, più o meno vincolato dalla conformazione delle categorie
professionali e produttive e più o meno orientato all’universalità e alla globalità della
copertura; l’opzione per un sistema (c.d. “a servizio sanitario nazionale”) finanziato dalla
fiscalità generale, necessariamente governato dall’attore pubblico e decisamente orientato
ad una protezione universalistica e globale della salute .
Come evidente, all’interno di questi modelli, le logiche dello Stato e del mercato giocano
reciprocamente ruoli profondamente diversi ed è proprio il confronto tra i sostenitori
dell’uno o dell’altro che connota una parte rilevante della discussione sulle trasformazioni
dei sistemi sanitari. Se è vero che, storicamente, si conoscono molte vicende di
transizione da sistemi di assicurazione sociale a sistemi “a servizio sanitario nazionale”,
mentre non sono noti, nell’ambito dei sistemi sanitari avanzati, casi di transizione inversa
nonostante rilevanti tentativi compiuti in questa direzione , è altrettanto vero che queste
spinte, pur non riuscendo a mutare il paradigma, possono condizionare le prassi e le logiche
di funzionamento dei sistemi universalistici a base fiscale, a favore di un aumento
degli spazi di azione degli operatori privati.
La storia del SSN italiano rientra in questa casistica ed è alla luce delle vicende del
1992-1993 (e più estesamente degli anni Novanta del Novecento) che ha acquisito (ma
anche rapidamente mutato) significato la discussione sui modelli sanitari regionali.

Modelli sanitari regionali. Una nozione polimorfa.

Nel 1992, il decreto legislativo n. 502 di riforma del SSN aveva introdotto una terza fondamentale
innovazione di sistema, accanto alla regionalizzazione “forte” e all’aziendalizzazione.
Essa poteva riconoscersi nelle previsioni di cui all’art. 9 del decreto, originariamente
rubricato “Forme differenziate di assistenza”. Tale disposizione avrebbe consentito
la costruzione di un “secondo pilastro” di finanziamento delle prestazioni sanitarie, tale
da reintrodurre forme di mutualismo sostitutive del canale di pagamento e accesso alle
prestazioni gestito nelle forme ordinarie del SSN. Come è stato messo in luce nella dottrina
giuridica, l’istituto in questione, la cui formulazione normativa presentava qualche
voluta ambiguità atta ad accrescere questo potenziale , avrebbe creato un doppio circuito
di finanziamento e, a cascata, anche di erogazione delle prestazioni in grado di “svuotare”
nel tempo il “pilastro” del sistema sanitario universalistico finanziato dalla fiscalità generale
. L’attivazione di tali forme differenziate di assistenza veniva posta nella disponibilità
delle Regioni, oltre che di quei «soggetti singoli o consortili, ivi comprese le mutue volontarie
» che sarebbero divenuti i maggiori attori di questo cambiamento.
In uno scenario del genere, la differenziazione tra servizi sanitari regionali avrebbe
potuto imboccare la via di una vera e propria “fuoriuscita” dal modello nazionale, con la
creazione di modelli sanitari “alternativi” a base essenzialmente assicurativa.
Una simile prospettiva, tuttavia, venne preclusa e superata dal decreto legislativo integrativo
e correttivo n. 517 del 1993, il quale serrò l’ingresso a canali di finanziamento alternativi
e concorrenti alla fiscalità generale, così sottraendo questa dimensione fondamentale
ai processi di caratterizzazione e differenziazione dei servizi sanitari regionali e portando la
“questione” dei modelli essenzialmente sul piano della organizzazione e gestione dei servizi.
Il decreto n. 517, infatti, modificò il 502/1992, eliminando quell’art. 9 e sostituendolo
con una disposizione dedicata ai fondi sanitari integrativi, previsti quali forme di reperi-mento di prestazione aggiuntive e non sostitutive di quelle garantite dal SSN .
La figura delle «sperimentazioni gestionali», locuzione con la quale l’originario art. 9,
comma 4, del decreto designava i percorsi di realizzazione delle forme differenziate di
assistenza avviati dalle Regioni, subì invece una radicale trasformazione. Ad essa fu dedicato
un art. 9-bis nel quale tali sperimentazioni (già previste nella legge delega) venivano
descritte come forme e processi organizzativi volti allo svolgimento integrato sia di opere
sia di servizi, finalizzati al miglioramento della qualità delle prestazioni e imputabili anche
a soggetti misti pubblico-privato, nonché assoggettati all’autorizzazione e alla verifica
della Conferenza Stato-Regioni.
Nell’esperienza applicativa, che ha visto peraltro una riformulazione della disposizione
nel 1999 e nel 2001 , le sperimentazioni gestionali hanno consentito l’adozione di
forme organizzative dei servizi sanitari (e socio-sanitari) differenziate rispetto a quelle
stabilite nella legislazione nazionale. Frutto di un compromesso per consentire forme
controllate di gestione pubblico-privata dei servizi, l’istituto è stato utilizzato al fine di
sostenere una importante presenza degli erogatori privati e pubblico-privati in sanità
soprattutto all’interno del sistema lombardo, nell’ambito di un modello di SSR (disegnato
dalla l.r. 31/1997) improntato alla separazione tra soggetti regolatori/acquirenti e soggetti
erogatori/gestori dei servizi, favorevole ad un certo tasso di competizione tra ospedali
pubblici e privati, ispirato all’idea del “quasi-mercato” e ad una interpretazione marcatamente
liberale del principio della libertà di scelta del paziente.
A partire dalla riforma regionale del 1997, il SSR lombardo, facendo leva su tali scelte
di fondo, si è dunque caratterizzato come un modello dai tratti deliberatamente distinti e
peculiari. Benché la Regione abbia presto iniziato un percorso di correzione progressiva
del suo impianto (culminato nella recente e profonda revisione di cui alla l.r. 23/2015 ), il
sistema lombardo ha rappresentato e continua per alcuni caratteri propri a rappresentare
il caso più significativo degli spazi di differenziazione delle sanità regionali. Si è trattato
e si tratta però di un modello sostanzialmente “eccentrico” nel panorama nazionale, riconoscibile
e riconosciuto per la sua eccezionalità che, all’interno delle analisi comparative
tra SSR e delle connesse tipologie classificatorie, conduce sempre a considerarlo come
uno dei modelli-tipo, ma anche come caso singolare. Forte di questa sua riconoscibilità
rispetto al governo del rapporto pubblico-privato in sanità, nonché della sua elevata capacità
di offerta di prestazioni, tale modello, benché non riprodotto in alcuna delle altre
Regioni italiane, ha costituito un punto di riferimento anche all’interno di altri contesti
regionali (e nel dibattito nazionale) per i fautori di politiche sanitarie più o meno
ispirate ai medesimi principi di fondo.
Se la questione dei rapporti con il privato ha senz’altro segnato la discussione sui modelli
sanitari regionali, trovando in quello lombardo la dimostrazione della possibilità di
non “fuoriuscire” dal sistema del SSN e contemporaneamente informare a logiche parzialmente
divergenti l’organizzazione e la gestione del SSR, sono anche altri i significati
che tale discussione ha assunto nella sanità italiana.
La combinazione tra regionalizzazione “forte” e aziendalizzazione, sancita con la riforma
del 1992-1993 e ridefinita in un quadro dotato di maggiore coerenza e organicità
nel 1999, offre infatti alle Regioni italiane la possibilità di manovrare in significativa autonomia
le leve di governo dei propri SSR, ad esempio: a) praticando i notevoli spazi di
conformazione delle aziende sanitarie alle caratteristiche particolari dei rispettivi territori
(dimensioni regionali, rapporto tra aree urbane e rurali, sistema dei trasporti e dellaservimobilità,
sistema degli enti locali, ecc.), sia regolando i rapporti di direzione e autonomia
tra livello regionale ed aziendale (maggiore accentramento regionale/decentramento
aziendale) nonché i rapporti tra aziende (coordinamento gerarchico/cooperazione paritaria,
previsione di moduli convenzionali, creazione di strutture interaziendali, ecc.);
b) modellando diversamente l’assetto dell’apparato di governo regionale e degli organi
direttivi aziendali (previsione di un’agenzia regionale per la sanità, individuazione di figure
o organismi particolari all’interno delle aziende, ecc.); c) governando con maggiore
o minore autonomia alcuni fattori di produzione delle prestazioni (HTA, politiche del
personale, rete della logistica, servizi farmaceutici, ecc.); d) incidendo sul peso e sulle proporzioni
reciproche dei “macro-livelli” (rapporto servizi ospedalieri e territoriali, ruolo
della prevenzione); e) disegnando i rapporti tra politiche sanitarie e altre politiche regionali
(rapporto tra sanità e sociale, rapporto tra funzioni di tutela della salute e funzioni di
tutela ambientale); f) selezionando priorità o target specifici di salute (livelli aggiuntivi,
contrasto a determinati fattori di rischio, creazione di reti cliniche o di percorsi diagnostico-
terapeutici particolari in base a patologie o specialità mediche).
Anche da un rassegna non organica e non esaustiva come questa, emerge come i profili
sui quali può incidere la Regione nel governo del proprio SSR siano vari e numerosi.
Tra questi profili, molti sono di ordine organizzativo ed è effettivamente con riferimento
alla dimensione organizzativa o della governance dei servizi che si muovono diverse analisi
sui modelli sanitari regionali .
In questo scenario, è particolarmente rilevante osservare che tutto ciò avviene
nell’ambito di una intensa interazione tra livello nazionale e regionale e a questo proposito
è essenziale almeno ricordare che il quadro di regole nel quale si sviluppano queste
dinamiche è presidiato dalla fonte costituzionale e da una corposa e rilevante giurisprudenza
del giudice delle leggi. Basti richiamare la rilevanza del principio di implicazione
reciproca tra garanzia del diritto alla salute e organizzazione dei servizi sanitari che
condiziona in profondità l’assetto della materia sanitaria e con riferimento al quale si è
consumata anche la vicenda, piuttosto nota, della riconduzione alla materia di potestà
legislativa concorrente “tutela della salute” di una ipotetica materia “organizzazione sanitaria”
rivendicata da alcune Regioni alla potestà residuale .
Il rapporto tra livello nazionale e regionale, prima che il confronto tra singoli SSR,
costituisce in effetti una dimensione di assoluto rilievo per comprendere i modelli sanitari
regionali. Dopo il tentativo del 1992-1993, spentosi in partenza, di introdurre un
“secondo pilastro” di finanziamento, tale per cui di sviluppo dei modelli regionali può
ragionarsi soltanto entro i confini del modello universalistico e a fiscalità generale del
SSN; e dopo il chiarimento della questione di fondo del rapporto tra pubblico e privato
(intesa sia sul piano delle relazioni tra SSR ed erogatori privati sia sul piano delle logiche
di funzionamento delle stesse aziende pubbliche), rimasta parzialmente ambigua nei primi
anni dell’aziendalizzazione e ridefinita in termini inequivoci dalla razionalizzazione
del 1999 (specialmente attraverso l’introduzione del sistema c.d. delle 3A e dell’istituto
dell’intramoenia, oltre che più in generale con la definizione del rapporto tra fondi integrativi
e garanzia dei livelli essenziali), tale per cui sembra derubricato il tema dell’alterazione
del paradigma pubblicistico del SSN , almeno per tramite dell’autonomia regionale
in sanità; oggi, il confronto tra sviluppo dei modelli regionali e sviluppo delle politiche
sanitarie nazionali può essere osservato proficuamente con riferimento all’approccio di

base che i primi adottano nei confronti delle seconde. È infatti interessante notare come
la caratterizzazione dei propri modelli da parte delle Regioni possa avvenire, rispetto ai
profili di organizzazione e funzionamento dei SSR sopra ricordati, per un verso, sia utilizzando
lo “strumentario” presente nella legislazione nazionale sia creando da sé alcuni
“congegni organizzativi”, per un altro, sia praticando maggiori iniziativa e autonomia nei
tempi e modi di adozione delle proprie politiche sia muovendosi in maggiore coerenza
e rispondenza agli indirizzi nazionali (non di rado facendosi in tal caso parte diligente e
attiva nel concorso alla determinazione di questi ultimi).
Simili coordinate interpretative offrono una chiave di lettura interessante per comprendere
la natura e le tendenze evolutive dei singoli SSR e, viste le vicende che lo riguardano,
specialmente di quello piemontese e del suo “modello”.

Il modello piemontese dopo il riordino del 1992-1993:
cenni essenziali

Nella “prima stagione” del SSN, quella regolata dalla legge n. 833 nella sua versione originaria
e caratterizzata dall’assetto istituzionale che essa disegnava nel distribuire le competenze
tra Regioni e Comuni, il Piemonte può annoverasi tra le Regioni che più hanno
saputo valorizzare le scelte di fondo della Riforma sanitaria, ponendosi tra quelle di
“avanguardia” nel processo di attuazione della stessa. Le indicazioni forse più significative
di questa rispondenza della politica sanitaria regionale ai principi e alle finalità del SSN
possono ricavarsi dalla vicenda della programmazione sanitaria regionale, uno strumento
di governo del sistema che il Piemonte ha saputo utilizzare efficacemente (peraltro, con
una buona regolarità cronologica) investendovi una grande parte delle scelte di costruzione
del proprio SSR, con aspetti innovativi anche nei contenuti (ad es. con riferimento alla
questione della integrazione tra sanitario e sociale) .
La “cesura” del 1992-1993 comporta alcune discontinuità anche rispetto a questa tradizione.
Una di esse riguarda senz’altro la “separazione” tra servizi sanitari e sociali che la
Regione sceglie, nei primi anni di attuazione della riforma bis, di gestire tendenzialmente
nel segno dell’autonomia tra i due settori e complessi organizzativi e perciò in un rapporto
con i Comuni che fatica a trovare spazi di integrazione.
Negli anni Novanta (con le l.r. 39/1994 e 61/1997) la Regione attua l’aziendalizzazione
del SSR e adotta tendenzialmente soluzioni organizzative coerenti con la legislazione
nazionale, come dimostra ad esempio la scelta di costituire, accanto ad aziende sanitarie
locali dotate di presidi ospedalieri di dimensioni piccole e medie, anche aziende ospedaliere
cui ricondurre i nosocomi maggiori.
Analoghe considerazioni si possono svolgere – ed è aspetto molto significativo – con
riferimento al rapporto tra pubblico e privato. Caratterizzato da una presenza di strutture
private proporzionalmente meno rilevante che in altre Regioni (anche limitrofe, come
Liguria e Lombardia), il Piemonte gestisce tale rapporto senza optare per politiche particolarmente
nette (a favore o disfavore) degli operatori privati, benché cresca l’interesse
sul finire degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila per una prospettiva di sviluppo che
potrebbe mutare questa tendenza a favore di un maggior ruolo del settore. È in questo
contesto che si sviluppa un progetto di riassetto del sistema piemontese verso una prospettiva
“lombarda” di separazione tra soggetti “acquirenti” e soggetti “erogatori” di servi

zi sanitari. Esso si sedimenta in un d.d.l. presentato durante la VII Consiliatura (il n. 348),
il quale, dopo un iter complicato, non verrà approvato e andrà incontro a decadenza .
Non appare disconnessa dalla prospettiva “lombarda” di sviluppo del SSR piemontese
(giacché simili modelli favoriscono e hanno spesso bisogno, per essere sostenibili, di una
certa quota di sovrapproduzione di prestazioni da valorizzare grazie alla mobilità interregionale),
anche la tendenza al potenziamento e alla crescita quantitativa dell’offerta di
servizi (specialmente ospedalieri) che si registra negli stessi anni e che, per altro verso, si
ricollega altresì al “vuoto programmatorio” che si produce in attesa di un nuovo piano
sanitario che non arriverà.
Quello del d.d.l. n. 348 rappresenta l’unico vero tentativo di “allontanamento” dal
modello nazionale che è possibile registrare nella storia della sanità piemontese, anche
tenendo conto di quanto si riferirà nel prosieguo con riferimento alla proposta di riassetto
della fine del 2010.
La scelta di restare coerente con il modello nazionale trova del resto, proprio sul finire
della VII Consiliatura, significativa corrispondenza anche nello Statuto del 2005, dove
l’art. 9, comma 3, – trattandosi di una delle pochissime norme statutarie in tema di salute
e sanità, ha una sua rilevanza notarlo – afferma in termini piani ma chiari la riconduzione
del SSR piemontese al quadro del SSN.

Il Servizio sanitario piemontese negli anni 2007-2017:
rilettura sintetica di un decennio complesso ed elementi
di base per la comprensione del modello

Il decennio che quest’anno volge al termine si apre con una riforma della sanità piemontese
particolarmente incisiva. La legge n. 18 del 2007, infatti, veicola due cambiamenti
strutturali. Il primo è quello sul quale il legislatore piemontese sembra puntare maggiormente,
investendolo di una dichiarata funzione di impulso e di governo dello sviluppo
futuro del SSR: la riconfigurazione delle procedure, dei soggetti e degli atti della programmazione
socio-sanitaria regionale. Il secondo cambiamento coincide con il riassetto
delle aziende sanitarie regionali, avviato con i commissariamenti dell’anno precedente, il
quale rappresenta la più importante operazione di fusione aziendale condotta all’interno
dell’organizzazione sanitaria piemontese dopo quella del 1994, che aveva attuato l’aziendalizzazione
delle 63 USSL piemontesi allora esistenti mediante un forte processo di
aggregazione territoriale e organizzativa .
La riforma della programmazione, che denota simbolicamente la volontà del legislatore
regionale di riprendere la tradizione che il Piemonte aveva sviluppato negli anni
di costruzione del SSR successivi alla l. 833 del 1978, delinea un sistema programmatorio
improntato: a) al coordinamento tra gli strumenti pianificatori regionale e locali; b) alla
cooperazione tra i livelli istituzionali regionale, aziendale e comunale, specialmente attraverso
la valorizzazione degli organismi di raccordo esistenti; c) alla integrazione tra
servizi sanitari e sociali, specialmente attraverso l’incentivazione della coincidenza dei
rispettivi ambiti territoriali e l’introduzione di procedure di consultazione o intesa sui
rispettivi atti programmatori; d) alla partecipazione ai processi programmatori da parte
degli utenti, delle organizzazioni sindacali e del terzo settore, di altri soggetti istituzionali
come le Università; e) alla valutazione periodica, intesa sia come valutazione di impatto
sulla salute delle decisioni strategiche interne e (soprattutto) esterne al sistema sanitario,

sia come valutazione di efficacia e di effettività delle scelte programmatorie.
Si tratta di un disegno manifestamente ambizioso.
Per un verso, esso nasce quando se ne è già testata la sostanza con riferimento al principale
degli strumenti programmatori: il Piano socio-sanitario regionale 2007-2010, che
viene approvato dal Consiglio regionale a pochi mesi dalla legge (D.C.R. 24.10.2007, n.
137-40212) dopo circa un anno e mezzo di gestazione caratterizzato da una intensa fase
consultiva, nonché dopo dieci anni dall’approvazione del precedente piano .
Per altro verso, il sistema programmatorio della legge n. 18 verrà realizzato solo in
parte e risulta oggi la componente meno effettiva della riforma del 2007 .
Diversa sorte è quella del riassetto delle aziende sanitarie, il quale mostra oggi la propria
solidità con riferimento alle aziende sanitarie non metropolitane e può ritenersi essere
stato coerentemente sviluppato – non senza difficoltà – tanto con la revisione delle
aziende torinesi del 2012 (AOU Città della salute e della Scienza) e 2016 (ASL Città di
Torino) quanto con la riorganizzazione degli ambiti distrettuali interni alle ASL come da
ultimo risultante dagli atti aziendali approvati nel 2015.
Se l’VIII consiliatura (2005-2010) termina con una attuazione della riforma del 2007
e del PSSR 2007-2010 ancora in corso per importanti profili (dall’adozione dei Profili e
Piani di salute disegnati nella legge n. 18 alla revisione della rete ospedaliera prefigurata
nel piano regionale), la IX reca da subito tre novità, di diversa natura e portata, in grado
di modificare notevolmente lo scenario: a seguito delle elezioni regionali del marzo 2010,
muta l’orientamento politico-amministrativo della Regione; il 29 luglio 2010 viene firmato
il piano di rientro tra Regione e Ministero dell’Economia e Finanze; nell’estate del
2011 si manifesta la crisi del debito pubblico e inizia, come noto, una fase di revisione e di
contrazione della spesa pubblica che coinvolge tutti i livelli di governo e tutti i comparti.
L’interazione di questi tre fattori principali apre una fase di particolare incertezza.
La nuova Giunta mostra di voler affrontare i problemi finanziari del SSR assumendosi
la responsabilità del piano, nell’ambito della procedura di affiancamento che chiama anzitutto
la Regione, con margini di decisione almeno inizialmente non esigui, a proporre
i contenuti del percorso di rientro dal disavanzo e di riqualificazione dei servizi. D’altro
canto, il rinnovato esecutivo regionale ha un proprio programma di riforma del SSR, il
quale prevede tra l’altro un riassetto aziendale particolarmente penetrante, in particolare
attraverso lo scorporo di tutti i presidi ospedalieri (anche quelli minori) dalle aziende
sanitarie locali e la loro attribuzione alle aziende ospedaliere, così da separare la gestione
della rete territoriale da quella della rete ospedaliera, imputandole a due tipi di aziende
regionali distinti.
Il progetto si intreccia con la elaborazione del c.d. addendum al piano di rientro, il
quale reca il programma attuativo del piano stesso. L’addendum (adottato con D.G.R. 28
febbraio 2011 n. 44-1615 e poi rettificato, a seguito di rilievi ministeriali, con D.G.R. 29
aprile 2011, n. 49-1985), infatti, fa proprio il predetto riassetto aziendale, nel frattempo
approvato (in forma di proposta della Giunta al Consiglio) con D.G.R. 29 dicembre 2010,
n. 51-1358 . Il percorso di tale riorganizzazione dunque assume la doppia veste di atto
esecutivo del programma politico-amministrativo della nuova Giunta e di strumento attuativo
del piano di rientro, secondo l’argomento, del tutto condivisibile in principio, per
cui un mero aggiustamento dei conti attraverso riduzioni di spesa temporanee senza una
revisione dei fattori organizzativi generatori della spesa stessa non sarebbe in grado di
raggiungere realmente l’obiettivo del riequilibrio del bilancio sanitario regionale.

Questa doppia natura del progetto non giocherà a favore, tuttavia, né dell’esecuzione
del programma di mandato né dell’attuazione del piano di rientro. La riorganizzazione
prefigurata nella D.G.R. del dicembre 2010, infatti, raccoglie presso il Consiglio regionale
rilievi critici di legittimità e di merito, che porteranno a modificarla (D.G.R. 3 febbraio
2012, n. 12-3345) nell’ambito del percorso di elaborazione del nuovo PSSR. Quest’ultimo
(approvato con D.C.R. 3 aprile 2012, n. 167-14087) segnerà il definitivo abbandono
di quel progetto di riorganizzazione del SSR, pur prevedendo due modifiche all’assetto
delle aziende sanitarie regionali di rilievo: la prima è l’individuazione della nuova azienda
ospedaliera “Città della salute e della scienza di Torino” , con la quale si dà seguito a un
processo di razionalizzazione delle aziende torinesi già auspicato, pur in forma diversa,
nel precedente PSSR e destinato a proseguire; la seconda è l’individuazione di sei nuovi
enti di area vasta, denominati “federazioni sovrazonali” .
Questa prima fase (2010-2012) di “intreccio” tra iniziative regionali di politica sanitaria
e attuazione del piano di rientro si conclude con un esito, su entrambi i fronti, diverso
da quello auspicato.
Sul primo, come si è visto, declina il progetto di “separazione” tra ospedali e territorio.
Di questo disegno restano peraltro elementi di non secondaria rilevanza (dotati
di una autonomia propria rispetto all’idea dello scorporo dei presidi ospedalieri dalle
ASL, tale da renderli funzionali anche all’assetto aziendale esistente e futuro). Si tratta in
primis dell’adozione del modello “hub/spoke” (già noto a molte esperienze regionali), il
quale, finalizzato a riconfigurare i rapporti interni alla rete ospedaliera e già presente sia
nell’addendum sia nel PSSR 2012-2015, successivamente sarà previsto anche nel Patto per
la salute 2014-2016 e verrà confermato dai provvedimenti regionali di revisione della rete
ospedaliera del 2014 e 2015 (i quali rivedranno, invece, la classificazione dei nosocomi
stabilita nel PSSR). Il PSSR 2012-2014 lascerà tracce anche su altri temi, come quello della
rete dell’emergenza (la cui struttura è assunta a fattore condizionante la riorganizzazione
di quella ospedaliera) e delle cure primarie (nel cui sistema viene introdotta la figura dei
CAP – Centri di assistenza primaria).
Sul secondo versante, quello del piano di rientro, il tavolo di verifica degli adempimenti,
nel dicembre 2011, dà un giudizio negativo che, oltre alla mancata erogazione
da parte dello Stato della seconda tranche del contributo integrativo previsto dal piano,
comporterà la necessità di una rielaborazione dei contenuti del percorso di riduzione del
disavanzo e riqualificazione dei servizi cui si porrà mano efficacemente soltanto nel 2013.
Ai due fattori “regionali” che si sono finora considerati va associato quello “nazionale”
coincidente con il periodo più complesso della gestione della crisi del debito sovrano
italiano e i conseguenti, numerosi e rilevanti, provvedimenti normativi. L’esame di questo
terzo fattore va oltre, naturalmente, le finalità di questo rapporto. Tuttavia, fermo il
fatto che, tra il 2010 e il 2011 (gli anni dell’avvio del piano di rientro piemontese) muta
radicalmente il quadro macro-economico generale (e quindi anche quello di riferimento
del piano stesso), non è fuori luogo segnalare che la crisi e la fase politica e di politiche
pubbliche che essa generò tra il 2011 e il 2013 richiederanno a Governo e Parlamento l’adozione
di provvedimenti normativi che avranno ricadute determinanti anche sull’evoluzione
della sanità piemontese negli anni di sottoposizione al piano. Tra di essi, ha avuto
una incidenza indiretta, ma per non perciò meno rilevante, l’introduzione del controllo
della Corte dei conti sul bilancio regionale nelle forme del c.d. giudizio di parificazione,
che incrocerà più volte la vicenda della riduzione del deficit sanitario ; mentre, tra

i provvedimenti direttamente rilevanti, vengono in primo piano il d.l. 95/2012 (conv. l.
135/2012) e il d.l. 158/2012 (conv. l. 189/2012), i quali offriranno un impulso decisivo per la
revisione della rete ospedaliera (posti letto) e territoriale (cure primarie), senza considerare
altri aspetti non minori come ad esempio le norme sull’acquisto di beni e servizi. Il
primo dei due provvedimenti, inoltre, reca un’innovazione normativa che inciderà sulla
stessa procedura del piano di rientro piemontese. L’art. 15, comma 20, del decreto, rende
applicabile alle Regioni in piano di rientro, che non abbiano superato positivamente le
verifiche ministeriali al termine del periodo di riferimento, la facoltà, già prevista in via
eccezionale dal d.l. 78/2010 (conv. l. 122/2010), di proseguire il piano mediante programmi
operativi di durata triennale, senza necessità di commissariamento .
L’anno successivo, il Piemonte si avvarrà di questo percorso e il 10 settembre 2013
sottoporrà ai tavoli ministeriali una bozza dei Programmi operativi per il triennio 2013-
2015, che verrà poi approvata con D.G.R. 30 dicembre 2013, n. 25-6992.
Si entra così in quella che possiamo identificare come “seconda fase” (2013-prima
metà 2014) del piano di rientro piemontese.
Questa transizione porta con sé la revisione di alcune scelte pregresse, tra le quali spicca
la soppressione delle neo-istituite federazioni sovrazionali (l.r. 13 novembre 2013, n. 20), le
cui difficoltà di attivazione si ritenne avessero generato criticità superiori ai vantaggi attesi.
Ciò non conduce ad un immediato allineamento tra provvedimenti regionali e obiettivi
di piano, come attesta la problematicità della D.G.R. 12 maggio 2014 n. 28-7588 (e delle
presupposte nn. 11-7572 e 12-7573 approvate in pari data) concernente la ridefinizione della
rete ospedaliera pubblica e privata, la quale, dopo pochi mesi, verrà sottoposta a diversi
rilievi presso i tavoli ministeriali, per essere poi sospesa dalla nuova amministrazione
regionale . E tuttavia, con l’approvazione dei Programmi operativi, la Regione definisce
una linea più aderente agli impegni del percorso di riduzione del disavanzo e di riqualificazione
dei servizi, preludendo a quella che può considerarsi la “terza fase” (l’ultima) del
piano di rientro (seconda metà 2014-2016).
Questa fase vede l’intervento di alcuni fatti nuovi: le elezioni regionali del 25 maggio
2014 portano una discontinuità di indirizzo politico amministrativo, insediandosi una
nuova maggioranza consiliare e una nuova Giunta; nel luglio del 2014 viene conclusa in
Conferenza Stato-Regioni l’intesa sul Patto per la salute 2014-2016; tra il 2014 e il 2015 si
completa l’iter di approvazione del regolamento sugli standard ospedalieri previsto dal
d.l. 95/2012 (conv. l. 135/2012). Non da ultimo, nel 2015 il quadro macro-economico inizia
a dare segnali di miglioramento.
Per il percorso di risanamento e riqualificazione piemontese, il punto di riferimento
restano i Programmi operativi 2013-2015, ma il loro completamento (che richiederà
un anno ulteriore rispetto al termine previsto) riceve alcuni impulsi decisivi proprio dai
fattori poc’anzi ricordati, nonché dall’“onda lunga” dei provvedimenti nazionali del 2012
richiamati più sopra.
Tra il 2014 e il 2015, si registra così una sequenza di atti regionali che incide sui principali
settori del sistema:
• la ristrutturazione della rete ospedaliera, con la D.G.R. 19 novembre 2014, n 1-600
(“Adeguamento della rete ospedaliera agli standard della legge 135/2012 e del Patto
per la Salute 2014/2016 e linee di indirizzo per lo sviluppo della rete territoriale”),
cui seguirà la D.G.R. integrativa 23 gennaio 2015, n. 1-924;

• l’individuazione e la ripartizione delle risorse economiche per l’esercizio 2014, con
la D.G.R. 22 dicembre 2014, n. 38-812 (“Presa d’atto delle disponibilità finanziarie
di parte corrente per il Servizio sanitario regionale relative all’esercizio 2014 e
determinazione delle risorse da assegnare agli Enti del SSR ai fini degli obiettivi
economico-finanziari per l’anno 2014”);
• la nomina dei nuovi direttori generali delle 16 aziende sanitarie regionali, con le
delibere di Giunta del 27 aprile 2015;
• il riassetto della rete territoriale, con la D.G.R. 29 giugno 2015, n. 26-1653
(“Interventi per il riordino della rete territoriale in attuazione del Patto per la Salute
2014/2016 e della D.G.R. n. 1-600 del 19.11.2014 e s.m.i.”);
• la ridefinizione dei rapporti con le struttura private e relativi volumi di prestazioni
e tetti di spesa, con le D.G.R. 6 luglio 2015, n. 67-1716 (“Articolazione dei posti
letto per attività di ricovero in acuzie e post-acuzie e per prestazioni di assistenza
territoriale da contrattare con le strutture private accreditate con il SSR erogatrici di
attività di ricovero ed individuazione dei correlati tetti massimi di spesa”) e 5 agosto
2015, n. 13-2022 (“Approvazione degli schemi di contratto/accordo contrattuale per
il triennio 2014-2016 da stipulare ex art. 8 quinquies D. lgs. n. 502/1992 con le Case
di cura private ed i presidi ex artt. 42 e 43 L. 833/78”);
• la revisione degli atti aziendali, i quali verranno approvati entro il termine del 2015
in base alle linee guida definite con la D.G.R. 27 luglio 2015, n. 42-1921;
• l’assegnazione degli obiettivi ai direttori generali, con la D.G.R. 5 agosto 2015, n.
12-2021 (“Art. 3 bis, commi 5 ss. d. lgs. n. 502/1992 e s.m.i.. Assegnazione obiettivi
economico-gestionali, di salute e di funzionamento dei servizi ai direttori generali
delle aziende sanitarie regionali finalizzati al riconoscimento del trattamento
economico integrativo per l’anno 2015”), i quali rappresentano una “mappa”
essenziale per la comprensione del percorso intrapreso dal SSR.
Si tratta di un complesso di atti che, unitariamente considerato, costituisce di fatto
una riforma organica della sanità piemontese. Significativo, a questo riguardo, che l’avvio
coincida con una incisiva riorganizzazione della rete ospedaliera, la quale ridisegna i
rapporti tra le diverse classi di ospedale, ridistribuisce al loro interno discipline cliniche,
funzioni assistenziali e strutture operative, genera una forte contrazione del numero di
strutture complesse, completa il processo di riduzione dei posti letto conformemente ai
nuovi standard nazionali.
L’implementazione dei provvedimenti sopra menzionati, e di altri che con essi hanno
dato attuazione dei Programmi operativi, consentirà nel 2016, insieme a una operazione
di ristrutturazione complessiva del debito regionale che è andata oltre il solo settore sanitario,
di considerare raggiunti gli obiettivi del piano di rientro, il cui percorso termina
ufficialmente con il verbale di verifica degli adempimenti firmato il 21 marzo 2017.

5. Il modello piemontese: aveva visto giusto lo Statuto?
Il carattere “attuativo” delle principali scelte di assetto
e di organizzazione del SSR

Come si è già ricordato, lo Statuto della Regione Piemonte prevede al terzo comma
dell’art. 9 che «Il sistema sanitario regionale opera nel quadro del sistema sanitario na-zionale». Si tratta di una previsione che non mostra, in apparenza, segni particolari e
che si potrebbe considerare quasi innocua. Per un verso, la sua adozione all’interno dello
Statuto del 2005, in un contesto storico nel quale la revisione del titolo V, parte II, della
Costituzione aveva rinvigorito in diverse realtà regionali ambiziosi progetti di rafforzamento
dell’autonomia regionale nel nome del federalismo, al più potrebbe segnalare,
per la sobrietà del disposto normativo, una controtendenza piemontese. Per un altro,
se ai sensi dell’art. 1, d.lgs. 502/1992 riformato nel 1999, il Servizio sanitario nazionale è
costituito (prevalentemente) dal complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei
Servizi sanitari regionali, può non far specie che il Piemonte ritenga che il proprio operi
nell’ambito del primo.
C’è però di più. Non tanto nella disposizione statutaria, che risulta utile richiamare
per focalizzare il tema in questa sede, quanto nell’effettività di una costante che caratterizza
l’evoluzione del modello piemontese, la quale si è manifestata anche nell’ultimo
decennio che si è poc’anzi ripercorso.
Il sistema sanitario piemontese, infatti, mostra uno sviluppo autenticamente coerente
con le scelte di fondo rinvenibili nella (corposa) disciplina sanitaria statale che, ai sensi
dell’assetto costituzionale delle competenze, si configura prevalentemente quale disciplina
recante i principi fondamentali in materia di tutela della salute.
Se si osservano sommariamente l’assetto istituzionale del SSR e le linee principali
dell’organizzazione delle aziende regionali, se ne ha una prima conferma piuttosto evidente:
il dimensionamento tendenzialmente provinciale delle aziende sanitarie locali; la
scelta di adottare i tre “tipi” aziendali previsti nella normativa statale (le aziende sanitarie
locali, composte da presidi ospedalieri e distretti; le aziende ospedaliere, che consentono
una gestione autonoma dei nosocomi maggiori; le aziende ospedaliero-universitarie per
la coesistenza delle funzioni di ricerca e didattica con quelle di assistenza); la struttura
della governance aziendale, con la “triade” di vertice, i direttori di distretto, le conferenze
aziendali e i comitati di distretto dei sindaci; il distretto come modulo organizzativo
principale dei servizi territoriali, di prevenzione, di continuità assistenziale, delle cure
primarie e dell’integrazione socio-sanitaria; il ruolo tendenzialmente integrativo delle
strutture sanitarie private.
Questa coerenza strutturale potrebbe corrispondere – e già sarebbe significativo –
soltanto alla scelta di non intraprendere vie organiche di differenziazione, come quella di
ampie sperimentazioni gestionali, le quali, si badi, nella sanità italiana (pur restando un
fenomeno limitato) non hanno connotato soltanto esperienze dichiaratamente propense
ad una “specialità” rispetto al paradigma del SSN (v. Lombardia), bensì anche realtà regionali
fortemente sostenitrici del modello nazionale (v. Toscana ).
Il carattere “attuativo” del modello piemontese emerge, infatti, nell’ambito almeno di
altri due fenomeni maggiori (ed uno minore) che possono osservarsi nel lungo periodo e
anche in quello “medio-breve” dell’ultimo decennio.
In primo luogo, le spinte di allontanamento dal modello delineato dalla legislazione
statale, per ragioni diverse e in misura non eguale nel tempo, hanno prodotto tentativi
di riforma non andati a buon fine. L’esempio più risalente e di maggiore portata è
quello del disegno di legge n. 348 della VII consiliatura, il quale puntava originariamente
ad “agganciare” l’esperienza lombarda della separazione tra regolatore/programmatore/
committente e produttore/gestore dei servizi, in un quadro di maggiore favore per la

“competizione” pubblico privato. Quello più recente è riconducibile al disegno di forte
separazione organizzativa tra servizi territoriali e servizi ospedalieri perseguito dalla riconfigurazione
delle ASL e delle AO di cui alla D.G.R. 29 dicembre 2010, n. 51-1358.
In secondo luogo, i cambiamenti e le innovazioni interni del SSR hanno spesso preso
le forme dell’attuazione di istituti, schemi organizzativi, moduli assistenziali elaborati
o, almeno, “codificati” a livello nazionale. Ciò, in alcuni casi, è corrisposto anche ad una
espressa configurazione dei provvedimenti normativi e programmatori regionali come
attuativi di quelli statali.
Gli esempi a questo proposito sono numerosi e può essere utile individuarne qualcuno
con riferimento: al PSSN 2007-2010; al PSSN 2012-2015; alla riforma, “frazionata” ma
organica, degli anni conclusivi del piano di rientro.
Nel Piano socio-sanitario del 2007 sono davvero numerosi i raccordi con la programmazione
nazionale. Così accade nella sezione dedicata alla prevenzione con riferimento
al piano nazionale di settore, così in quella dedicata alla rete ospedaliera, dove è forte il
condizionamento dell’Accordo Stato-Regioni del 23 marzo 2005, almeno sul tema annoso
e cruciale dei posti letto. Degne di menzione sono anche altre previsioni concernenti
i servizi territoriali, come il recepimento del modulo “organizzativo-assistenziale”
della Casa della salute (frutto dell’adesione alla sperimentazione promossa nel 2006 dal
Ministero della salute ) o l’adozione del c.d. Sportello unico socio-sanitario (frutto della
rielaborazione delle indicazioni considerate prioritarie da diversi atti nazionali, nonché
oggetto di apposito finanziamento statale).
Non sono da trascurare anche i diversi “addentellati” tra programmazione nazionale
e regionale presenti nel PSSR 2012-2015. Il maggiore, anche se in genere poco evidenziato
, riguarda forse la stessa ristrutturazione della rete ospedaliera ivi prevista secondo il
modello “hub/spoke” (e in armonia con la riorganizzazione della rete dell’emergenza), la
quale sviluppa indirizzi già fissati, anche alla luce di altre esperienze regionali, dal Piano
sanitario nazionale 2006-2008 . Se, in ordine agli aspetti macro-organizzativi, è probabilmente
questo l’elemento di maggior coerenza tra i due livelli pianificatori, non mancano
diversi rimandi settoriali (es. punti nascita, malattie rare, percorsi di riabilitazione,
vaccinazioni).
Certamente nel periodo del piano di rientro il “dialogo” tra livello nazionale e regionale
assume forme peculiari. È chiaro che i rapporti di gerarchia e competenza mutino,
nella misura in cui l’accordo di piano vincola (con l’efficace leva dei finanziamenti integrativi
in mano statale) la Regione al rispetto di un percorso fatto di obiettivi e, soprattutto,
di azioni esecutive dei medesimi determinati da una intensa e difficile negoziazione. Si
è visto quanto è stata faticosa per il Piemonte la “prima fase” del piano proprio in ragione
di un disallineamento tra adempimenti concordati in sede di cooperazione e provvedimenti
regionali adottati in autonomia e più volte valutati problematicamente ai tavoli di
verifica. E si è rilevato anche come, attraverso una “seconda fase” non priva di problemi,
si sia raggiunto un riallineamento che, con la “terza fase”, ha consentito di uscire dal piano.
È vero che i Programmi operativi costituivano essi stessi il portato di una “stretta”
dell’indirizzo statale sull’autonomia regionale, ma ritenere che lo scenario sia migliorato
perché la Regione ha, infine, scelto di “obbedire” alle prescrizioni ministeriali darebbe
luogo ad un giudizio semplicistico e non fondato. Nella “terza fase” del piano, infatti,
la Regione ha trovato all’interno della stessa legislazione e programmazione statale gli
strumenti necessari per applicare (e adattare) al SSR piemontese gli adempimenti previsti

dai Programmi operativi. Da un lato, ciò è accaduto perché tali Programmi, adottati nella
“seconda fase”, offrivano essi stessi uno strumentario in parte rinnovato a seguito dei
provvedimenti normativi statali del 2012. Dall’altro, all’esito positivo del percorso si è arrivati
proprio perché le stesse delibere regionali del 2014-2015 hanno interpretato e fatto
propri gli indirizzi statali, trasformandoli in azioni di politica sanitaria regionale. Qui le
evidenze sono macroscopiche e basterà ricordare quelle dal peso sistemico maggiore. La
prima attiene senz’altro alla (pesante) revisione della rete ospedaliera , che combina: una
più decisa imposizione alle aziende del modello dipartimentale declinato in base a criteri
di intensità di cura (che il SSR piemontese aveva da tempo recepito dalla riforma ter del
1999 e che però aveva riscontrato una diffusione piuttosto lenta ed ostacolata prima dalla
crescita e poi dalla rigidità della dotazione di strutture operative e di posti letto negli
ospedali piemontesi); il modello “hub-spoke” già previsto nel PSSR 2012-2014 e rivisitato
nella D.G.R. 1-600 del 2014; la riduzione delle strutture complesse prevista nel piano di
rientro, che diventa componente essenziale dei nuovi atti aziendali; la riduzione dei posti
letto che, però, a differenza delle premesse, il Piemonte ha avuto modo di gestire in uno
scenario in cui tutte le Regioni (e non solo quelle in piano) venivano chiamate all’adeguamento
agli standard nazionali.
Inoltre, fin dall’impostazione della D.G.R. 1-600 del 2014, il riordino della rete ospedaliera
è stato coordinato con quello della rete territoriale, il quale mostra un andamento
analogo rispetto al rapporto con la programmazione statale, come risulta evidente dalla
centralità che nella D.G.R. 26-1653 del 2015 assumono le figure delle AFT e UCCP (già
previste dalla contrattazione con i medici di medicina generale, ma poi decisivamente
istituzionalizzate con il d.l. 158/2012, conv. l. 189/2012 e sviluppate con il Patto per la salute
2014-2016) .
Su ciascuno di questi argomenti ci si potrebbe intrattenere oltre, poiché una analisi
più approfondita ne condurrebbe a notare, in punto di fatto, risultati raggiunti, risultati
mancati e, certamente, risultati ai quali il sistema sta lavorando e che richiederanno tempo
per essere centrati. Quel che però, in questa sede, si intende sottolineare è che l’esito
complessivamente positivo dell’uscita dal piano di rientro e di riconfigurazione di una
politica sanitaria regionale organica e riconoscibile è stato ottenuto valorizzando i caratteri
“attuativi” del modello piemontese.
Una intelligente attuazione non comporta alcun deficit di innovazione o alcuna carenza
di specificità. Un Piemonte che “adatta”, un Piemonte che “insegna”.
Considerare il modello piemontese caratterizzato da una attitudine ad una piena attuazione
di quello nazionale e rilevare una maggior forza delle politiche sanitarie regionali
nel momento in cui esse valorizzano e rielaborano indirizzi statali non significa che
il modello piemontese sia pianamente adesivo, privo di capacità innovativa o carente di
proprie specificità.
Ci sembra nel tempo sempre più persuasiva l’opinione per cui uno dei punti di forza
della regionalizzazione (e, quindi, anche dell’aziendalizzazione, visto il legame stretto tra
le due determinato dalle riforme degli anni Novanta ) risieda non tanto nella possibilità
dei SSR di farsi eccentrici rispetto alle logiche e alla struttura del SSN, quanto nella capacità
di adattamento di questo modello (in costante evoluzione) al proprio contesto territoriale.
Il Piemonte può considerarsi quasi un caso di scuola di questa dinamica, anche
solo ricordando sommariamente le non poche peculiarità territoriali che esso ha gestito

avvalendosi dello “strumentario” del SSN: la divisione tra l’area metropolitana e gli altri
“quadranti”; la complessa morfologia territoriale; il tessuto municipale frammentato (con
un numero di 1202 Comuni, secondo in termini assoluti soltanto alla Lombardia e superiore
più del doppio al “terzo in classifica”, il Veneto); la presenza storicamente importante
dei piccoli ospedali; un quadro di fattori di rischio ambientali particolarmente critico
e in rapida evoluzione, ecc.
Da questo punto di vista, non è fuori luogo chiedersi, nella logica della presente analisi,
se manifesti un maggior tasso di autonomia un atto regionale che persegua un modello
originale e differenziato di governance aziendale o quello, apparentemente di portata
più limitata, che decida la distribuzione dei punti nascita in base alla geografia, ai flussi
di mobilità, alla sicurezza del paziente, alla conformazione della rete dell’emergenza e
alla collocazione delle unità di terapia intensiva neonatali; piuttosto che quello che punta
alla riconversione di un piccolo ospedale in un CAP o in una Casa della salute, con relativa
chiusura di posti letto, ma anche ampliamento dei servizi di prossimità e di prima
risposta al bisogno sanitario. Il fatto che simili scelte, fondate su di una adesione di base
al modello nazionale, non siano per nulla semplici o banali tende ad essere dimostrato sia
dalla vivacità della discussione pubblica (e delle resistenze) da esse suscitate sia dai tempi
lunghi e dai percorsi progressivi che esse spesso comportano nella realtà dell’amministrazione
regionale e locale.
Ciò chiarito rispetto all’approccio al tema dell’autonomia regionale in sanità, va detto
che il Piemonte, rispetto alle proprie specificità ed eccellenze, mostra anche una certa
generosità nei confronti del contesto nazionale.
Anche qui occorre una considerazione preliminare. Il SSN ha acquisito ormai le forme
di un sistema nazional-regionale integrato, retto da un governo tendenzialmente
condiviso tra i due livelli. A seconda delle fasi politiche (e anche economiche) il peso
dell’attore statale e di quelli regionali può variare, ma il sistema avanza solo attraverso
scelte assunte nell’ambito dei meccanismi di cooperazione: se i patti per la salute tardano,
se l’aggiornamento dei LEA con intesa non arriva, rischia di arretrare l’intero sistema;
se questi strumenti funzionano, quando occorre con la forza motrice della legge statale
(come è accaduto nel 2012), il SSN si evolve e regge al tempo, spesso grazie alle (talora,
nonostante le) differenze regionali.
In questo quadro, nel quale i margini di autonomia possono diventare ampi proprio
in ragione delle diversità territoriali che essi aiutano a tenere insieme, può realizzarsi tra
l’altro un apprendimento reciproco tra realtà regionali, in via diretta, attraverso processi
di emulazione tra Regioni, o in via mediata, attraverso individuazione delle buone pratiche
a livello nazionale (presso il quale esse possono altresì essere rielaborate e migliorate).
Di questo meccanismo, il Piemonte è uno dei protagonisti con riferimento a settori e
temi di primo rilievo. Basti qui ricordare l’oncologia, l’emergenza, la prevenzione primaria
e secondaria, le malattie rare. Si tratta, non a caso, di aree di attività organizzate
attraverso il modello della “rete sanitaria” che rappresenta una delle componenti (e delle
forze) sostanziali più caratteristiche e longeve del modello piemontese.
Prima di concentrare brevemente l’attenzione su questa componente, occorre considerare
anche il terzo elemento, minore si è detto, che suffraga la lettura del modello
piemontese qui proposta. Si tratta del governo delle funzioni di area vasta, “livello” territoriale
che in sanità risulta poco presidiato dalle norme statali e per molti versi appare

privo di uno schema dominante nel confronto tra sistemi regionali, i quali presentano
più varianti sul punto. Rinviando per l’approfondimento alle informazioni e agli spunti
analitici contenuti in un recente rapporto regionale , ai nostri fini è sufficiente constatare
che il Piemonte, in assenza di uno schema di riferimento, abbia nel tempo mostrato una
certa oscillazione nel dare soluzione al problema. Tale oscillazione è visibile sia nella individuazione
delle funzioni da portare a questo livello (sovra-aziendale e sub-regionale)
di gestione sia nella configurazione delle connesse forme organizzative e degli ambiti territoriali
. Peraltro, le conseguenze di ciò vanno valutate altresì alla luce del fatto che l’area
vasta abbia un ruolo non limitato all’esercizio delle funzioni amministrative trasversali,
rappresentando anche un “bacino” rilevante per alcuni profili dell’organizzazione della
rete ospedaliera e dell’emergenza.

Una componente qualificante, peculiare, esemplare
del modello piemontese: le reti sanitarie

Un interessante studio di taglio economico ed organizzativo dei primi anni Duemila censiva
la presenza in Piemonte di sedici reti sanitarie, osservando come questa modalità
organizzativa di determinati attività e percorsi assistenziali, basata sulla cooperazione tra
aziende del SSR e, soprattutto, tra strutture e professionisti appartenenti ad aziende diverse,
costituisse una eccellenza e una peculiarità del modello piemontese.
La presenza e il ruolo delle reti sanitarie piemontesi (il cui primo caso di successo
è identificato nella rete dei trapianti nata all’inizio degli anni Ottanta del Novecento) è
quindi radicato e riconosciuto non da oggi, come dimostra anche il fatto che alcune di
esse abbiano costituito un modello di riferimento nel panorama nazionale, come è avvenuto
ad esempio per la rete del 118 o per quella oncologica.
La fortuna dei modelli organizzativi a rete, non sono in sanità, ha generato una certa
tendenza ad un uso del termine particolarmente ampio, che può richiedere una precisazione.
Certamente è corretto ricorrere al concetto anche con riferimento alle “grandi”
reti organizzative come la rete ospedaliera o quella territoriale, giacché al loro interno il
rapporto tra aziende o strutture organizzative diverse viene conformato alla cooperazione,
allo scambio di informazioni e risorse, a meccanismi sussidiari i cui vantaggi si ritrovano
nella capacità della rete di creare valore sia a livello di sistema sia a livello di singola
azienda o unità, fuori da una logica di competizione che porta invece alla duplicazione
delle funzioni, all’aumento dei costi, alla lentezza nella circolazione delle conoscenze,
all’inadeguatezza delle singole risposte al bisogno ecc.: tutti svantaggi particolarmente
deleteri e privi di giustificazione nel settore sanitario. E nella medesima ottica è del tutto
comprensibile parlare di riorganizzazione “a rete” della logistica o delle farmacie.
Tuttavia le potenzialità di questo modello organizzativo si esprimono in modo specifico
e particolarmente vantaggioso specialmente con riferimento alle reti c.d. cliniche,
ovvero quando al centro dei meccanismi di collaborazione tra strutture organizzative
autonome e tra i professionisti che vi operano è posta una determinata patologia o un determinato
rischio od evento dannoso per la salute e quindi un correlato percorso di diagnosi,
cura e assistenza. È infatti in questo caso che la rete clinica (che certo assume una
valenza strettamente organizzativa dei percorsi, ma ancor prima possiede una valenza
professionale) offre la possibilità superare i “confini” territoriali e le “barriere” burocratico-
amministrative fisiologici dell’organizzazione aziendale, sia al loro esterno (rete interaziendale)
sia al loro interno (rete infra-aziendale), consentendo: la cooperazione su temi

proe
problemi comuni da parte di soggetti distanti e rispondenti ad organizzazioni gerarchiche
autonome; uno scambio di informazioni cliniche e una condivisione dell’expertise
essenziali per la qualità e sicurezza delle prestazioni, per lo sviluppo delle conoscenze,
per la formazione dei professionisti; una presa in carico globale del paziente caratterizzato
da un determinato bisogno di salute e una risposta integrata e multidisciplinare al
medesimo; un forte incentivo ad operare per protocolli e procedure; il perseguimento di
un proficuo equilibrio tra formalizzazione e informalità dei rapporti tra professionisti.
Non è difficile scorgere questi vantaggi dietro alla crescita delle reti cliniche piemontesi,
il cui grado di istituzionalizzazione è presenta diverso. A questo riguardo, è significativo
notare come alcune reti abbiano attraversato già diverse trasformazioni passando da
una struttura leggera e informale ad una organizzativamente più stabile, com’è accaduto
ad esempio per la rete epidemiologica o per la rete oncologica (in quest’ultimo caso con
l’istituzione di un dipartimento non solo interaziendale ma anche interregionale: esempio
significativo di un modello piemontese che declina originalmente gli ordinari strumenti
dell’aziendalizzazione ).

Tra Regione e Comuni: processi di aggregazione
inter-aziendale ed infra-aziendale, programmazione locale,
integrazione socio-sanitaria

Considerando le specificità del modello piemontese, non è possibile trascurare ed è
necessario almeno richiamare per cenni un insieme di temi e di problemi che ruotano
intorno al rapporto tra Regione e Comuni.
Tra i caratteri peculiari che hanno inciso sull’evoluzione del modello sono senz’altro
annoverabili tre variabili attinenti alla geografia (fisica, economica, sociale e amministrativa)
del territorio regionale: la presenza della grande e polarizzante area metropolitana
torinese, a fronte della struttura tendenzialmente policentrica del restante territorio regionale,
con un ruolo non omogeneo dei diversi capoluoghi di provincia nei confronti
dei centri del proprio territorio e, talora, anche di quelli di altre province; la notevole
variabilità della morfologia del territorio, con la compresenza di zone montane, collinari,
di pianura; la frammentazione dell’amministrazione locale, con un elevato numero dei
Comuni e una elevatissima presenza di piccoli Comuni.
Queste variabili, la cui tendenza, alla luce dell’evoluzione del sistema politico ed
economico-sociale, è ad aumentare il proprio peso specifico anziché diminuirlo, hanno
senz’altro incrementato la complessità del rapporto tra Regione e amministrazione locali
generata da due fattori di cambiamento che caratterizzano in generale gli sviluppi del
SSN: la trasformazione della governance del sistema sanitario conseguente all’aziendalizzazione,
con la sostanziale estromissione dei Comuni dalle funzioni di organizzazione
e gestione dei servizi nel 1992-1993 ed un parziale recupero nel 1999 del loro ruolo sul
piano della programmazione e valutazione dei medesimi e sul piano della cooperazione
gestionale nel settore integrazione socio-sanitaria nel 1999 ; il progressivo e importante
processo di aggregazione delle circoscrizioni delle aziende sanitarie locali e dei distretti
sanitari, che, pur mutevole da Regione a Regione (costituendo tale dimensionamento una
fondamentale leva di governo regionale del proprio servizio ), si evidenzia in tutte le realtà
regionali.
Sul primo versante, va ricordato che l’aziendalizzazione ha prodotto una rottura

dell’imputazione unitaria delle funzioni amministrative sanitarie e sociali ai Comuni, che
le esercitavano entrambe attraverso le proprie USSL. In Piemonte il cambio di passo è
stato più netto poiché si è transitati da una politica, nella prima stagione del SSN, di marcata
valorizzazione della integrazione tra i due settori ad una scelta di tendenziale separazione
tra sanitario e sociale, favorita dalle “mani libere” lasciate ai Comuni nell’opzione
verso la delega delle funzioni sociali alle aziende USL, che interessò pochissimi distretti.
Nacque così l’esperienza multiforme degli enti gestori dei servizi sociali, composti in
maggioranza da consorzi di funzioni e altre forme di cooperazione intercomunale .
Sul secondo versante, gli sviluppi territoriali del SSR, con l’aumento delle dimensioni
delle ASL e dei distretti, hanno prodotto una crescente divaricazione tra gli ambiti sanitari
e gli ambiti sociali recando con sé le correlate difficoltà di interazione tra i rispettivi
soggetti istituzionali. Poiché i Comuni (fuori dal caso della delega all’ASL ) dispongono di
forme organizzative per il rapporto con le ASL ai fini della programmazione e valutazione
dei servizi sanitari, le quali seguono l’organizzazione e il dimensionamento aziendale
(le conferenze aziendali dei sindaci e i comitati dei sindaci di distretto), diverse dalle forme
organizzative per la programmazione e gestione dei servizi sociali, che conseguono
invece a scelte autonome di governo delle funzioni socio-assistenziali assoggettate a deboli
direttive regionali (unioni di Comuni, consorzi intercomunali, Comune capoluogo di
provincia, convenzioni tra Comuni minori e Comune capofila), la questione della mancata
coincidenza degli ambiti territoriali reca con sé particolari criticità.
La legislazione statale (art. 8, l. 328/2000), dopo la fondamentale scelta compiuta
con il d.lgs. 229/1999 di disegnare un’area di prestazioni, quella dell’integrazione sociosanitaria,
finalizzata a ricomporre la frattura tra i due settori attraverso la condivisione
delle responsabilità e la cooperazione nella programmazione e nella gestione in nome
di una adeguata risposta a bisogni unitari della persona , ha indicato la coincidenza degli
ambiti dei servizi sociali (o di multipli di questi) con quelli distrettuali come soluzione
ottimale per superare quelle criticità, seguita in tal senso dalla legislazione regionale (art.
8, l.r. 1/2004 e art. 22 l.r. 18/2007). Questo obiettivo, fino all’ultima revisione degli ambiti
distrettuali, era stato raggiunto per circa i due terzi dei distretti sanitari. Poiché la
tendenziale “tenuta” del numero e della geografia dei distretti rispetto alle vecchie USSL
costituiva un fattore di oggettivo favore verso la coincidenza degli ambiti, la mancata corrispondenza
in circa un terzo dei casi poteva prevalentemente imputarsi a dinamiche localistiche
o, comunque, alla responsabilità e alle autonome scelte dei Comuni. Oggi, dopo
la predetta revisione, la questione è obiettivamente mutata, poiché l’ulteriore fusione tra
ambiti distrettuali, che ha necessariamente mutato i termini della non corrispondenza ,
apre un’ipoteca non indifferente sul raggiungimento dell’obiettivo, offrendo forse maggiori
ragioni ai Comuni che esitino a procedere in quella direzione. Lo scenario è, però,
molto aperto, poiché la geografia dei servizi sociali sta a sua volta affrontando significativi
cambiamenti, tra i quali l’istituzione dei distretti della coesione sociale, previsti nel Patto
per il sociale 2015-2017 (D.G.R. 19 ottobre 2015 n. 38-2292) e individuati con D.G.R. 9
maggio 2016, n. 29-3257 .
L’obiettivo di coincidenza degli ambiti non è stato l’unico né il principale strumento
per ritessere i legami tra sanitario e sociale, il quale viene individuato dalla legislazione
statale e regionale nella programmazione integrata sia attraverso obblighi di consultazione
o, talora, di intesa tra gli organi dell’uno e dell’altro settore sia attraverso l’obbligatoria
corrispondenza, limitatamente all’area dell’integrazione sociosanitaria, tra gli atti di proingrammazione
sanitaria e sociale adottati a livello regionale e locale.
Il modello piemontese aveva mostrato di voler sviluppare le indicazioni statali attraverso
un innovativo atto di programmazione locale, come i Profili e Piani di salute,
previsti dalla l.r. 18/2007. L’attuazione di questa parte della legge regionale resta soltanto
parziale e la situazione delle ASL piemontesi è eterogenea. Soprattutto va sottolineato che
là dove è stato approvato il Profilo di salute (il cui processo di costruzione nei vari territori
ha comunque condotto ad un meritorio e prezioso aggiornamento delle conoscenze,
specialmente di ordine epidemiologico, sulla salute delle popolazioni locali), è la componente
del Piano di salute, ovvero dell’atto programmatorio vero e proprio, sostanziato
dall’individuazione di priorità e indirizzi di azione, a mostrare una diffusa impasse. Ciò
non significa che gli atti della programmazione locale dei due settori (piani attuativi locali/
programmi delle attività territoriali e piani di zona) non abbiano in diversi casi valorizzato
le evidenze emerse nel corso del processo di costruzione dei medesimi e riportate
nei medesimi, ma il potenziale innovativo dei PePS appare nei fatti ampiamente sottovalutato,
anche in termini di partecipazione della comunità locale. In una fase, come quella
attuale, di implementazione di quella riforma “frazionata” ma organica che ha condotto
all’uscita dal piano di rientro e delle scelte di organizzazione e di allocazione delle risorse
e delle strutture, talora non facili per i territori, di cui essa si compone, quel potenziale
potrebbe tornare utile proprio in ottica partecipativa.

Alcune considerazioni conclusive.

L’uscita dal piano di rientro consente oggi al Piemonte di riottenere margini più ampi
per lo sviluppo della politica sanitaria regionale, ad iniziare da aspetti del sistema particolarmente
penalizzati dalle riduzioni di spesa degli ultimi anni, come gli investimenti in
edilizia sanitaria o le assunzioni di personale.
Il percorso di analisi che si è condotto può offrire alcuni elementi utili anche per una
lettura dell’attuale momento di “ripartenza”.
Se questa piena riespansione dell’autonomia regionale in materia sanitaria reca con
sé molteplici vantaggi e potenzialità, è altrettanto vero che essa stessa non rappresenta la
ripresa di un percorso dopo una “parentesi” difficile.
Come si è visto, l’esperienza del piano di rientro, che consegna un SSR senza dubbio
“provato” dai molteplici cambiamenti che esso ha dovuto e deve tutt’oggi affrontare non
solo in conseguenza della razionalizzazione della spesa ma specialmente della riorganizzazione
delle funzioni e dei servizi, si è intrecciata, fino a fondersi, con un percorso di sviluppo
del sistema piemontese guidato (o, almeno, co-guidato) dalle dinamiche politiche
e dalle scelte amministrative regionali. Lungo questo percorso, l’interazione tra indirizzi
e vincoli nazionali e decisioni regionali ha portato, in ultima analisi, a un recupero e a un
consolidamento di importanti caratteri del modello piemontese. Tanto che la predetta
“ripartenza” può leggersi per molti aspetti come uno sviluppo e una implementazione
della riforma “frazionata” ma organica degli ultimi anni.
In uno scenario complesso, nel quale possono legittimamente aversi impressioni
contrastanti sull’attuale momento, c’è un dato che è stato già sottolineato nella discussione
pubblica e certamente non va trascurato in questa sede. Si tratta del miglioramento
che il Piemonte ha ottenuto nel posizionamento all’interno del ranking dei SSR elaborato
dal Ministero della salute in base alla c.d. Griglia LEA, ovvero alla batteria di indicatori/
risultati che consentono di valutare l’adempimento delle Regione agli obblighi di ero-

gazione dei livelli essenziali delle prestazioni. Passando dal terzo al secondo posto, con
il miglior punteggio in termini assoluti mai ottenuto da quando esiste il monitoraggio,
il Piemonte mostra una “risalita” nella classifica che, confermando un trend positivo, incoraggia
rispetto alla capacità dal sistema di reggere alla difficile fase di attuazione del
piano e, soprattutto, ai problemi che avevano condotto alla sua attivazione, riferendosi
il monitoraggio al 2015. Come tutte le valutazioni di performance, la classifica prodotta
dalla Griglia LEA, per quanto multidimensionale, coglie solo una parte della complessità
della sanità e della salute in Piemonte. E tuttavia, essa restituisce l’immagine di un sistema
che tiene e continua a funzionare, essendo addirittura in grado di migliorare la capacità
di adempiere a quei livelli delle prestazioni che sostanziano il diritto a prestazione che
rappresenta il cuore del proteiforme diritto alla salute garantito dalla Costituzione.
L’esistenza di un trend positivo suggerisce che, tra i fattori che hanno giocato in questa
direzione, siano da tenere in attenta considerazione quelli più radicati e caratterizzanti
il modello.
Alla luce di quanto richiamato, ad esempio, in materia di reti sanitarie, tra quei fattori
le comunità professionali della sanità piemontese hanno probabilmente un peso fondamentale.
Ipotizzare che, nell’ambito della difficile sfida del piano di rientro che ne ha
sollecitato la capacità di adattamento alla razionalizzazione delle risorse e ai rivolgimenti
organizzativi, le comunità professionali del SSR piemontese abbiano “retto” e contribuito
all’esito positivo del percorso significa riconoscere un patrimonio di competenze, di
capitale umano da valorizzare. In sanità come altrove – ma forse in sanità di più – questo
patrimonio necessita di accorti interventi, in particolare di c.d. age management, perché
le prospettive generate dall’aumento dell’età media del personale impongono decisioni
immediate che richiederanno tempo per poter fronteggiare le criticità già oggi percepite
all’interno dei servizi . Così come sembrerebbe saggio considerare che il contributo dato
dalle comunità professionali del SSR indichi che, accanto a quelli da superare, esistano
schemi di gestione “micro” del lavoro da salvaguardare. Ferma l’utilità che avrebbe una
migliore e più approfondita comprensione di questi aspetti, è senz’altro vero che quel
contributo non va sollecitato troppo nella capacità di rispondere positivamente alle difficoltà,
essendo non pochi i cambiamenti organizzativi che ad oggi richiedono ancora,
dopo i provvedimenti del 2014-2015, di essere messi in opera o portati a compimento.
Analogamente, sono probabilmente da “accudire” altri caratteri, come ad esempio la
capacità del Piemonte di far evolvere il sistema e di innovare secondo strumenti, schemi
e tipi organizzativi propri del SSN e della legislazione statale che ne regola i fondamenti,
anche apprendendo dall’esito spesso problematico di cambiamenti organizzativi divergenti
dal modello nazionale o anche soltanto eccessivamente netti nei modi e nei tempi.
Vi sono certamente segnali di ulteriore valorizzazione del modello, come ad esempio
il lavoro in corso per il raggiungimento di un obiettivo di governo del sistema non ancora
raggiunto, come l’adozione dei nuovi protocolli tra Regione e Atenei piemontesi in
quell’ambito così rilevante qual è la sanità universitaria.
Seppure presenti fisiologiche difficoltà, l’evoluzione del modello piemontese suggerisce
anche di proseguire nello sviluppo della cooperazione interaziendale, sapendo non
solo che per essa può intendersi la capacità delle aziende di collaborare quando si trovano
a gestire problemi comuni, come è necessario nell’ambito delle Aree interaziendali di
coordinamento o nell’ambito dell’interazione tra servizi imputati ad aziende diverse insistenti su di uno stesso territorio (ciò che avviene sia nella città metropolitana di Torino
sia nelle province di Cuneo o di Alessandria ad esempio), ma anche che essa, quando funziona,
si sostanzia della capacità dei singoli professionisti e delle singole strutture interne
alle aziende autonome di collaborare per obiettivi e percorsi comuni, come avviene nelle
reti cliniche.
Accanto alle comunità professionali, che hanno una parte importante delle dinamiche
di cooperazione più virtuose, sono da ricordare – e non potrebbe essere altrimenti,
vista quella parte del modello piemontese che guarda ai rapporti tra Regione e Comuni
– le comunità locali destinatarie dei servizi e dei molteplici cambiamenti degli ultimi
anni, specialmente nella ristrutturazione della rete ospedaliera e nella prosecuzione sulla
strada delle fusioni inter-aziendali (vedi quella che è in pieno svolgimento a Torino o che
si è affacciata per le aziende alessandrine) e infra-aziendali (vedi gli accorpamenti degli
ambiti distrettuali che sono avvenuti diffusamente sul territorio regionale).
A proposito dei processi di aggregazione, è in corso non a caso una intensa discussione,
dentro e fuori le sedi istituzionali deputate, dalla quale dipenderà una parte dell’evoluzione
del modello piemontese cui si è dedicata questa ricerca. Un punto a favore di un
ordinato e produttivo svolgimento di questo dibattito potrebbe segnarlo proprio la considerazione
dei tratti forti del modello e di come le scelte da prendere si pongano rispetto
ad essi. Sviluppare quel “modello non modello” che è il Piemonte in sanità richiede, per
quanto si può apprendere dalle sue vicende, di partire dalle sue costanti positive.
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Segretario Scientifico CEIMS Università Piemonte Orienrale